La famiglia Fullenbaum
“per essere e vivere insieme a me” [1]
In una lettera del 23 gennaio 1941 scritta dal campo di concentramento di Ferramonti di Tarsia [2], Wolf Fullenbaum pregava il Ministero di potersi ricongiungere con la moglie Ester Wochenmark e la figlia Carlotta, residenti in quel momento in via Capolago 7 a Milano. In quei frangenti, la separazione dai propri cari e l’incertezza su ciò che stava accadendo riempivano i pensieri dell’internato Wolf. Come spesso accadeva, la lettera rimase l’unico strumento per cercare un contatto con il potere e per tentare, attraverso un’esposizione il più possibile razionale e comprovata, di convincere la macchina burocratica o di far leva sulla pietà di qualche funzionario.
Le formule, sempre presenti all’inizio e alla fine delle lettere (“ho l’onore di pregare umilmente, di tutto il cuore l’onorevole Ministero di voler prendere in considerazione la brutta situazione materiale e morale, in quale si trova la mia famiglia”, “In speranza di ricevere una presta risposta favorevole ringrazio infinitamente in anticipo l’Onorevole Ministero e porgo i miei distinti ossequi”) e sempre tendenti ad utilizzare il dovuto linguaggio improntato a rispetto e sottomissione, sono un elemento ricorrente nelle lettere degli internati, seppur non tutti fossero in grado di padroneggiare l’italiano allo stesso modo. Ciò poteva dipendere dal tempo di permanenza in Italia prima della guerra, dalla relativa densità dei rapporti interpersonali di natura socio-economica, ma anche dalle condizioni personali, a partire dal livello di studio, così come dalla provenienza geografica. Spesso le lettere erano scritte di proprio pugno, mentre in altri casi è probabile immaginare l’intervento d’intermediari, soprattutto nel caso di istanze ufficiali fatte pervenire al Ministero per il tramite di un podestà o, più sovente, della Questura e della Prefettura.
La richiesta può apparire incomprensibile in tempi di pace, ma aveva solide ragioni per degli ebrei stranieri che, già colpiti duramente dalle leggi razziali del 1938, non avevano altri appigli che la propria famiglia. Scrive Wolf:
Sono costretto a fare questa per le seguenti cause. Io ero l’unico, che mantenevo completamente la mia famiglia, cioe: la mia moglie (…) e la mia figlia (…). Dal momento, (cioe dal 11/9/40) in cui sono stato internato e mandato al Campo di Concentram. la mia moglie e la mia figlia sono rimaste sole a Milano (…) senza mezzi da vivere, in una tragica situazione. Io e la mia moglie abbiamo perso la cittadinanza polacca e abbiamo ricevuto nel 1939 un passaporto per apolide, rilasciato dalla R. Questura di Milano [3].
La prassi individuata dal Ministero dell’Interno del governo fascista prevedeva la disposizione dell’internamento per gli uomini, mentre le mogli con i figli venivano lasciate presso il proprio comune di residenza, salvo che non ci fossero particolari motivi che spingevano verso un’uniformazione delle decisioni.
Il periodo in cui Wolf è internato non è casuale. In vista dell’entrata in guerra dell’Italia, il Duce richiese la creazione di campi di concentramento, anche per gli ebrei, senza ulteriori specificazioni. Si aprì così una fase importante della politica antiebraica del fascismo, posta a metà strada di un processo più ampio di persecuzione dei diritti, prima, e delle vite, poi.
Davanti al vicolo cieco creato dal RDL del 7 settembre [4], i Fullenbaum avevano provato a prendere tempo chiedendo una proroga del loro soggiorno nel Regno oltre la scadenza prevista, in altre parole i sei mesi concessi per lasciare l’Italia. L’8 aprile 1939 la Prefettura di Milano comunicò alla Demorazza la richiesta di Wolf, informando contestualmente il Ministero che l’ebreo straniero “si è trasferito definitivamente all’estero il 20 marzo vuolsi diretto in America” [5]. Notizie infondate dato che il 23 novembre la stessa Prefettura scrisse nuovamente al Ministero per notificare che “è stato qui rintracciato ed abita al presente in via Ceradini n. 9. Risiede in Italia dal 13 febbraio 1938 e risulta di regolare condotta in genere. È rappresentante di commercio e da tale attività trae i mezzi di vita per sé e per la famiglia. (…). Chiede di rimanere nel Regno oltre il termine stabilito dall’art. 24 del RDL 17.11.1938 n. 1728, perché è tuttora in attesa di ottenere il visto consolare per l’ammissione negli S.U.A. Esprimo parere contrario all’accoglimento della istanza ed informo che il Federale di Milano, interpellato in merito, non ha ancora comunicato il suo parere” [6].
Nulla si mosse fino a quando il Capo della Polizia, Carmine Senise, scrisse al prefetto Marziali per sapere quali decisioni fossero state adottate. Non ci sono elementi per valutare l’effettiva capacità amministrativa di Marziali, ma vanno evidenziati gli errori nella ricostruzione del caso: se ad aprile 1939 lo indicava già all’estero, nell’agosto 1940 lo presentava come celibe, nonostante i chiari dati in suo possesso. Ciò che è più importante, però, in quest’ultimo documento sono le annotazioni sulla pericolosità di Wolf: “(…) è ritenuto individuo pericoloso perché capace di turbare l’ordine pubblico. Da fonte confidenziale è stato riferito che il predetto specie in questi ultimi tempi, si accompagnava ad altri connazionali con i quali avrebbe svolto anche opera di propaganda contro il nostro intervento in guerra. Pertanto lo si propone per l’assegnazione in un campo di concentramento”. Una scritta a mano indicava il suo destino: Ferramonti [7].
Tredici giorni dopo, il 28 agosto, il Ministero ne dispose l’internamento [8]. La Questura di Milano doveva farsi carico, come avveniva comunemente in questi casi, di provvedere all’accompagnamento dell’ebreo attraverso l’Italia.
Più tardi un’identica disposizione colpì la moglie e la piccola Carlotta (nata il 25 novembre 1938 a Milano) [9]. In realtà Ester era stata oggetto di una prefettizia del 29 dicembre 1940 in cui Marziali segnalava al Ministero la sua situazione, un tentativo non troppo velato di allontanarla da Milano: “La soprascritta straniera, qui residente dal novembre 1938 con lo scopo di visita, trovasi tuttora in questa città. Ha il marito (…) internato nel campo di concentramento di Ferramonti di Tarsia. Si propone, pertanto, che la Wochenmark la quale non ha possibilità di recarsi all’estero, venga internata a Ferramonti od in altro Comune del Regno” [10]. In breve tempo, il 12 gennaio, il Ministero decise di inviare Ester e la bambina nel campo di Ferramonti dove sarebbero arrivate un mese dopo.
Solo il 22 marzo, però, la Prefettura di Milano scrisse al Ministero affermando di aver verificato quanto chiesto da Wolf due mesi prima: “da accertamenti eseguiti è risultato che effettivamente la di lui moglie (…) e figlia (…), si trovano in questa città prive di mezzi di sussistenza. Esprimo, pertanto, parere favorevole al loro internamento nel campo di concentramento di Ferramonti di Tarsia” [11], ormai già avvenuto.
Non molti i dati sulla loro permanenza a Ferramonti, se non quelli filtrati attraverso lo sguardo di una Charlotte bambina: “I miei genitori ed io siamo arrivati al campo di Ferramonti 1940 e siamo rimasti lì fino al 1941. Ero molto piccola, solo due anni, i miei ricordi sono pochi però sono buoni. Particolarmente mi ricordo con tanto affetto del direttore Paolo Salvatore che lui era buonissimo con i bambini li voleva tanto bene sempre provava di darci un po’ di gioia nella vita. Uno dei miei ricordi molto affettuosi mi ricordo che mi ha portato sulla sua motocicletta per comprare gelato e questo mi ha fatto molto contento e un altro ricordo c’ho una fotografia mi ha portato sul suo cavallo credo che il cavallo si chiamava Brillante (?). Anche c’erano altre feste per bambini genitori hanno fatto feste per il compleanno dei suoi figli. Ho una fotografia di questo (…). Anche avevano ogni tanto feste per tutta la gente nel campo e ho trovato una fotografia in un libro di una festa così (…) ho trovato mia madre con me sulle bracce (…). C’erano anche la scuola per i bambini. Ecco fotografia di scuola (…) La scuola era solo un modo di provare di avere una vita un po’ normale. Tutte le cose che sono accadute lì era sempre avevano in mente di essere umani con la gente, di avere un senso di umanità. Questa era la cosa che i miei genitori si ricordavamo e parlavano di quel tempo che sono state sempre stati trattati con tanto rispetto per la loro umanità e per questo c’ho tanto tanto affetto e gratitudine. Grazie ancora al signore Salvatore che non c’è più, la sua famiglia e tutti quelli che erano gentili con noi” [12].
Anche per i Fullenbaum si aprì la possibilità di passare all’internamento libero e il 5 settembre 1941 il Ministero dispose il loro trasferimento in un comune della provincia di Padova [13]. Muniti di foglio di via obbligatorio dal direttore del campo di Ferramonti il 10 ottobre, con l’ingiunzione di presentarsi alla Questura entro tre giorni, la famiglia Fullenbaum il giorno seguente era già a Padova dove ricevette un ulteriore foglio di via per Piove di Sacco [14], come il prefetto comunicò al Ministero [15] e il questore al podestà di Piove [16]. “Alle sopradette persone dovrà essere fatto il trattamento degli internati”. La frase sinistra utilizzata dalla Questura si riferiva da una parte al rispetto del regolamento sull’internamento, dall’altra alla corresponsione, in caso di indigenza, del previsto sussidio [17]. Giunti a Piove, per ciascun internato veniva compilato il modulo Soggiorno degli stranieri. Su quello di Wolf, datato 12 ottobre, emerge un dato nuovo: “Trovasi in Italia dal 30 marzo 1938 proveniente da Cologna del Reno” [18]. La data indicata permette di inserire anche i Fullenbaum nell’insieme degli arrivi del 1938, anche se la loro prima tappa in Italia non fu Padova. Quello stesso 12 ottobre, il Questore di Padova scrisse al Podestà di Piove per trasmettere “l’unito avviso ferroviario con preghiera di farlo recapitare all’interessato per lo svincolo delle sue masserizie in questa stazione ferroviaria” [19].
Come per tutti gli ebrei stranieri, la quotidianità era improntata all’adattamento alla peculiare situazione formalmente riconosciuta come “internamento libero” e, con il passare del tempo, alla risoluzione di specifiche questioni che, viste attraverso ciò che i documenti restituiscono delle singole storie, sembrano impregnare tutto il vissuto di un internato o di un’intera famiglia. Come anticipato nell’introduzione, qui sta uno dei limiti della ricerca condotta esclusivamente attraverso la documentazione disponibile. Se da un lato, infatti, consente comunque di avere uno spaccato del vissuto, dall’altro sembra che la complessità di una vita sia ridotta ad un unico problema.
Nel caso dei Fullenbaum, gli unici documenti riguardanti il periodo dell’internamento rimandano o alla corresponsione mensile del sussidio o alle esigenze esposte dalla famiglia stessa. Attraverso un pugno di materiali di archivio, si viene così a sapere di alcuni disturbi fisici di Ester, visitata anche dal medico di Piove di Sacco [20], Dott. Cav. Pietro Andrich, che attestava la necessità di una visita specialistica. L’istanza di Wolf, tendente ad ottenere un aumento del sussidio per la moglie per poter sostenere le spese delle cure [21] e a cui venne allegato il certificato medico, fu poi inviata in Prefettura [22] che a sua volta la inoltrò al Ministero [23] richiamando, come spesso accade nello scambio di informazioni tra enti, le circolari ministeriali al riguardo (in questo caso la 442/16796 del 9 giugno). La risposta giunse solamente il 14 gennaio 1943 e il Ministero, in maniera breve e secca, comunicò: “Non accolta istanza per avere un sussidio straordinario”. Oltre due settimane occorsero affinché il questore di Padova invitasse il podestà di Piove ad informare Wolf delle decisioni ministeriali [24]. Un mese e mezzo di sospensione e incertezza per ricevere una risposta. Se si moltiplica il caso qui esposto per tutte le singole richieste di migliaia di internati, forse si può immaginare la quantità di documenti necessaria per far fronte a tutte le istanze prodotte e per regolare la quotidianità dell’internamento.
Si nota, inoltre, una differenza tra la necessità di sintesi nelle richieste e nelle informazioni inviate dal Ministero e le ricostruzioni dei casi inviate dagli enti che operavano sul territorio, spesso infarcite di ripetizioni perché caratterizzate dal bisogno di richiamare quanto già detto o di far presente le singole situazioni degli internati, in alcuni casi con l’intento di mostrare la propria capacità d’indagine e di controllo sugli internati stessi. In compenso, così facendo, questi corposi documenti si rivelano preziosissimi perché permettono di conoscere il percorso di vita di un internato, con riferimento a quello osservato e gestito dall’amministrazione, dall’ingresso in Italia fino alle diverse fasi dell’internamento e alle fughe dell’autunno 1943. Qualche ricostruzione si spingeva ancora più indietro nel tempo, grazie alle deposizioni degli ebrei all’atto dell’ingresso nel Regno o dell’arresto da parte delle autorità italiane o, ancora, alle istanze presentate al Ministero quando, spinti dalla necessità di mostrare la reale sussistenza della propria richiesta, esponevano le loro vite allo sguardo censorio della burocrazia o di qualche “eccellenza” a cui appellarsi, in maniera non dissimile dagli ebrei italiani che nel 1938 trovarono, nell’umiliante svisceramento di curriculum, esperienze, alberi genealogici, conoscenze e militanze, l’unica via percorribile per convincere un potere protervo della veridicità della propria situazione e della necessità di modificare le decisioni prese su ciascuno di loro.
Se quanto visto fin qui ci restituisce gran parte della biografia dei Fullenbaum, è solo rivolgendosi ad altre fonti che è possibile ricostruire il periodo antecedente e posteriore a quello dell’internamento in Italia. Ciò è dovuto al fatto che i fascicoli personali erano aperti in corrispondenza dell’arresto o dell’internamento, sempre che non ci fossero altre considerazioni sulla pericolosità politica del soggetto o sui suoi beni da confiscare, e si chiudevano con le ricerche disposte dalle Questure a causa delle fughe concomitanti o successive all’8 settembre 1943. Ci sono alcuni fascicoli che riportano informazioni successive, ma ciò avviene principalmente per due motivi: l’arresto, la detenzione nei campi di concentramento provinciali e la deportazione (soprattutto tra l’autunno del 1943 e la metà del 1944); il rilascio di attestati sul periodo di internamento e la richiesta di sussidi effettuati per lo più nel 1945. Di conseguenza, se ci si affida solo ai documenti è molto difficile conoscere ciò che accadeva dopo l’8 settembre a tutti quegli ebrei in fuga, ad esempio verso la Svizzera o il sud Italia, ma anche a coloro che si nascondevano rimanendo nella zona di internamento. I racconti di quei mesi o anni di clandestinità emergono solo a posteriori, grazie alle testimonianze degli stessi ebrei rilasciate ad esempio alla Shoah Foundation, a scritture private o edite, al riconoscimento dei Giusti o a ricerche storiche. Va evidenziato che molti ex internati dopo la guerra sono tornati nei luoghi in cui hanno vissuto quegli anni di “rifugio precario” per far visita alle famiglie conosciute o a coloro che li hanno messi in salvo. È quanto ha fatto Charlotte Fullenbaum tornando a Secchiano nel 1983 e poi nel 1990. Spesso, nei ricordi, il periodo che va dal 1941 al 1943 è caratterizzato da una sospensione del tempo a cui si guarda con piacere, se non con gratitudine, oppure su cui si sorvola, essendo un periodo compresso tra le memorie della fuga dall’Europa centrale ed orientale degli anni Trenta e quelle del dopo armistizio.
La famiglia Fullenbaum rientra in quest’analisi. Non solo Charlotte Fullenbaum Hauptman ha rilasciato un’intervista alla USC Shoah Foundation [25], ma la sua storia è presente in articoli relativi al riconoscimento di alcuni Giusti tra le Nazioni e anche in un film documentario, My italian secret[26], uscito nel 2014. Le fonti convergono nella seguente ricostruzione dei fatti.
Wolf Fullenbaum, un rappresentante di commercio che aveva già avuto rapporti con l’Italia [27], non era in casa, in Germania, quando i nazisti bussarono alla sua abitazione nel novembre 1938. Trovarono Ester, prossima al parto, e i suoi genitori. Durante le operazioni di arresto, legate alla Kristallnacht, Ester svenne e fu lasciata momentaneamente sul posto [28]. Fu l’occasione per organizzare la fuga. L’unica opzione era dirigersi verso Milano dove si trovava il marito. “Mia madre riuscì a passare il confine italiano con l’aiuto di un nipote della Svizzera [29]. E proprio a Milano altri della sua famiglia erano fuggiti dalla Germania” [30]. Appena dieci giorni dopo l’arrivo in Italia, il 25 novembre, nacque Charlotte.
È stato già analizzato il processo di arresto e il successivo internamento a Ferramonti e a Piove di Sacco. Quello che qui interessa è vedere quali furono le reazioni e le risorse sui cui poterono contare dopo l’8 settembre. Dalla testimonianza di Charlotte si può capire che la famiglia, in quel momento a Piove, fu avvertita e invitata a fuggire. Inizia qui il lungo percorso verso la salvezza. Diretti verso Sud, decisero di andare verso la costa e raggiunsero Rimini a bordo di un peschereccio. Successivamente arrivarono nel centro Italia dove divenne cruciale l’intervento dei partigiani. “Abbiamo vissuto sempre nascosti cambiando spesso località. A Secchiano infine ci ha portati il signor Samuele Panichi [31] un amico di Virgilio Virgili, il padre di Gianna e Mercedes” [32]. Quest’ultima ha dichiarato: “Era l’autunno 1944 (…) e di fronte alla nostra osteria si fermò una carrozza con Samuele Panichi, un noto partigiano di Pianello. Scese e disse a mio padre Virgilio… ‘Sulla carrozza ho con me due persone e una famiglia ebrea, marito, moglie e la figlia … devi nasconderli”. Mio padre Virgilio era un simpatizzante del Ventennio, ma ugualmente molto amico di Samuele, si volevano bene e si stimavano. Subito nascose i tre in soffitta. (…). Con mia madre Daria, mio fratello Mario e mia sorella Gianna ci impegnammo a mantenere il segreto, ad accudirli e a procurare cibo” [33]. Attraverso gli occhi di Artemio Palazzetti, testimone dell’epoca, la descrizione si arricchisce: “(…) uno di questi pomeriggi, la carrozza di Panichi Samuele di Pianello, vecchio oppositore del fascismo si fermò e dall’abitacolo scesero un piccolo uomo con cappotto, cappello e occhiali e una signora, fine e distinta, con una bimbetta bionda che teneva per mano. Capimmo subito, dai loro volti smarriti, dall’incertezza degli sguardi, che non solo erano forestieri, ma addirittura fuggiaschi stranieri. Panichi Samuele disse: ‘Io ne ho altri da sistemare, pensate voi a questi. La bambina è sfinita. Aiutateli’. (…). La prima persona che si preoccupò di trovar loro una sistemazione fu Parruccini Isolina, sfollata da Roma, che li condusse dalla famiglia di Virgili Virgilio, che in quel tempo aveva un negozio di generi alimentari, tabacchi, osteria e in più una discreta casa di abitazione” [34]. Le testimonianze concordano e fanno emergere una vera e propria rete di salvataggio: il partigiano Panichi, le famiglie Paruccini e Virgili ed infine l’intero abitato. Accolti e rifocillati dagli abitanti del paese, che contava non più di 600 abitanti, i Fullenbaum entrarono così in un’ennesima fase della loro vita, scandita dalla semplicità quotidiana [35], ma anche dalla continua tensione. Come visto, la famiglia si sistemò inizialmente presso i Virgili, in una stanza che dovettero condividere con la piccola Mercedes [36]. Virgilio aveva un grande magazzino e gestiva un’osteria. Poteva quindi disporre di maggiori spazi, ma ciò lo rendeva anche più visibile. La scelta non metteva a rischio solo la sua vita, ma anche quella della moglie, Daria Maestrini, e dei figli, Mercedes e Gianna. Potevano essere anche piccoli dettagli a tradire la vera origine dei Fullenbaum e ad attirare i controlli: “La loro figlia si chiamava Charlotte, stessa mia età, ci giocavo ma lei parlava tedesco e per evitare che venisse scoperta poiché l’osteria dei miei genitori era molto frequentata da coloro che da Pianello dovevano raggiungere Cagli. Così quando la facevo uscire di casa mi ero raccomandata che tenesse sempre il pollice in bocca. Questo per paura che le scappasse qualche parola in tedesco. Intuimmo dei pericoli e mio padre trasferì e nascose la famiglia in un locale della attigua scuola elementare, poi iniziò una rotazione con altre famiglie per evitare sospetti” [37]. Della scuola parla anche Artemio Palazzetti affermando che “al secondo piano, c’erano le abitazioni per gli insegnanti, ma che non erano mai utilizzate, perché le insegnanti, due maestre elementari, abitavano a Cagli, che dista da Secchiano 5 km e venivano o in carrozza o in bicicletta” [38].
Tutti gli abitanti sapevano della loro presenza e ciascuno diede il proprio contributo per aiutarli, “o col silenzio o con l’aiuto economico” [39], mossi da umanità, ma anche dalla curiosità verso degli ebrei stranieri: “Con Wolf, noi giovani, diventammo amici. Eravamo assetati di notizie e così apprendemmo le sue disgrazie, che erano poi le disgrazie universali, ma aggravate per loro dal fatto razziale. Dopo la fine della guerra, capimmo perché avevano tanta paura! Ancora ignoravamo i campi di sterminio, i gas, i forni crematori!” [40]
Un intero paese, quindi, capì e accettò di partecipare alla salvezza di una famiglia. “Il parroco Don Giuseppe Celli [41], ci aiutò in questo coinvolgendo altri fidati parrocchiani. Con l’intensificarsi dei bombardamenti alleati, i tre rimasero nascosti in una casa più sicura quella della Caterinuccia. In poco tempo gli abitanti del paese con tanto slancio ed altruismo, iniziarono a portare mele, legna, ortaggi e qualsiasi cosa fosse commestibile per aiutarli”[42]. Il sistema della rotazione delle abitazioni fu una soluzione semplice ma efficace. La scelta di spostarli dalla scuola alla casa di Carlo Mensali e Caterina Guiducci fu dettata anche dal fatto che era più lontana dalla strada principale. In quella situazione, si pensò anche di aiutare la famiglia dando un lavoro a Wolf come manovale in una squadra di muratori, impiego in cui trovò non poche difficoltà per motivi fisici e per attitudine. Secondo il Palazzetti, il proprietario della casa in costruzione per cui Wolf lavorò inizialmente lo pagò ugualmente, ma lasciando che rimanesse nascosto in casa, anche per il timore che si facesse male o che fosse scoperto.
Le retate e gli arresti dei nazifascisti colpirono anche Cagli e la zona circostante. Palazzetti fu arrestato dai fascisti e tenuto nel carcere di Pesaro per 45 giorni, mentre Virgilio Virgili, arrestato dai nazisti, fu condotto nel palazzo dei Mochi, all’epoca sede del comando militare: “Qualche mese più tardi una spiata fece arrestare mio padre ed a seguito di sofferenze per quel triste episodio, si ammalò” [43]. Accusato di aiutare e proteggere partigiani ed ebrei, fu messo sotto torchio per alcuni giorni, ma lui fece valere il suo passato di fascista della prima ora che aveva partecipato alla marcia del 1922. Rilasciato, non si riprese dalle fatiche del periodo e si spense nel novembre del 1945 [44].
Il clima di terrore che scese su Secchiano è presente anche nelle parole di Charlotte: “Ricordo Secchiano sempre con tanto affetto. La gente era bravissima e noi siamo sempre stati trattati benissimo. Ho un ricordo particolare di Virgilio Virgili che ci portava sulla sua carrozza e a cavallo. Poi ci portava della legna per riscaldarci nella scuola del paese dove eravamo nascosti. Ricordo ancora il freddo dell’inverno e la paura costante dei nazisti. Però va detto che anche gli italiani correvano lo stesso pericolo, in particolare i cittadini di Secchiano che hanno rischiato tutto per aiutarci a sopravvivere durante quel periodo così difficile. Tra le altre cose mi tornano alla mente gli aeroplani che volavano sopra Secchiano e che buttavano giù fogli per avvertire la gente a non aiutare ebrei e partigiani. Io stavo sempre con la mia amica più buona, Mercedes Virgili. (…) eravamo in chiesa un giorno quando qualcuno ci iniziò a gridare: ‘Scappate, scappate, vengono, vengono’. Tutti lasciarono la chiesa e iniziarono a correre in varie direzioni. Quando arrivai a casa mia trovai la porta aperta senza nessuno dentro. Pensai che i tedeschi avessero ucciso mia madre. Invece i secchianesi avevano studiato un piano per ingannare i tedeschi e non far cadere in trappola la mia famiglia. Avevano stabilito che, qualora i soldati fossero entrati in paese, i miei genitori sarebbero dovuti andare nei campi per lavorare la terra come tutti gli altri. Mio padre e mia madre però dovevano rimanere in silenzio perché non parlavano bene l’italiano e i nazisti avrebbero scoperto il trucco immediatamente. Avevamo una costante paura di essere arrestati e deportati anche perché sapevamo dei lager” [45]. Alla fine si decise di portare i Fullenbaum verso la zona controllata dagli Alleati. “Con la liberazione di Roma, io mio padre e un’altra signora, Evelina, di notte li accompagnammo fino a Mòria [46]. Era ancora freddo e Charlotte non aveva molti vestiti. Evelina le fece indossare il suo cappotto e con tanti abbracci li salutammo con il dubbio di non poterli più rivedere” [47]. In seguito furono i partigiani a condurli al sicuro. Raccolti dagli inglesi, furono portati a Roma nel campo profughi di Cinecittà [48]. Nella città eterna rimasero fino al 1950, nei primi tempi ospitati nell’appartamento di Desolina e Memmo Paruccini [49], in attesa che si aprissero nuove possibilità, cosa che avvenne quando riuscirono a trasferirsi negli Stati Uniti, in California [50], scelta compiuta principalmente per motivi di lavoro.
Nel ripercorrere quanto vissuto in quegli anni, Charlotte ha dichiarato: “Purtroppo, si dimentica la storia troppo presto. Se la gente rimarrà indifferente alle tante cose che accadono in tutto il mondo, allora gli orrori continueranno. È per la bontà e il coraggio della gente di Secchiano, e di tanti altri italiani che noi, e molti altri come noi, possono continuare a vivere la vita. Oggi abbiamo figli, nipoti, e molti altri in famiglia che fanno del bene in giro per il mondo” [51].
NOTE
[1] È la frase che utilizzò Wolf Fullenbaum per chiedere che la moglie e la figlia lo raggiungessero nel campo di Ferramonti. ACS, MI DGPS DAGR, A4 bis, b. 124, fascicolo “Fullenbaum Wolf di Abramo e moglie”, 23 gennaio 1941.
[2] Trasmessa dal Prefetto di Cosenza al Ministero il 4 febbraio 1941. ACS, cit.
[3] Ivi, lettera di Wolf Fullenbaum al Ministero dell’Interno.
[4] Il successivo RDL 17.11.1938 n. 1628 confermò e chiarì le disposizioni.
[5] ACS, cit.
[6] Ivi.
[7] Ivi, 15 agosto 1940. R. Prefettura di Padova a Ministero dell’Interno – DGPS, DAGR. Nel documento si afferma anche che il Fullenbaum è in possesso di titolo di identità n. 374 rilasciato a Milano il 12.8.1939. In quella del 23 gennaio si dice che hanno ricevuto nel 1939 un passaporto per apolide, rilasciato dalla R. Questura di Milano.
[8] Ivi, 28 agosto 1940, Ministero dell’Interno alla Prefettura di Milano e p. c. alla Prefettura di Cosenza.
[9] Ivi, 12 gennaio 1941, Ministero dell’Interno alla Prefettura di Milano e p. c. alla Prefettura di Cosenza.
[10] Ivi, 29 dicembre 1940, Prefettura di Milano al Ministero dell’Interno – DGPS, DAGR.
[11] Ivi, 22 marzo 1941, Prefettura di Milano al Ministero dell’Interno – DGPS, DAGR e p. c. alla Prefettura di Cosenza.
[12] Messaggio di Charlotte Hauptman, registrato su Skype e proiettato al campo di Ferramonti il 27 gennaio 2015 per la cerimonia del Giorno della memoria – https://www.youtube.com/watch?v=VmStkK-xHEs&feature=youtu.be.
[13] Nel fascicolo dei Fullenbaum, come in quello di moltissimi altri ebrei stranieri internati, si trova un elenco di nominativi con accanto le “province prescelte dagli interessati”. Nel loro caso si trattò di Padova e Udine.
[14] A Piove di Sacco si sistemarono in via San Rocco 220 presso Giacomo Fabris.
[15] ACS, cit., 11 ottobre 1941, Prefettura di Padova al Ministero dell’Interno – DGPS, DAGR e p. c. al Direttore del campo di concentramento di Ferramonti di Tarsia.
[16] ACPdS, fondo D487, f. “Ebrei”, sottofascicolo 15, Fullenbaum Wolf, 11 ottobre 1941.
[17] Si ricorda che in un campo di concentramento il sussidio ammontava a 6,5 £ al giorno per ogni capofamiglia, 2 £ per la moglie e 0,50 £ per ogni figlio, cifre inferiori a quanto corrisposto durante l’internamento nei comuni. Come si evince dalle ricevute dei versamenti mensili conservati nell’Archivio di Piove di Sacco, i Fullenbaum ricevettero il sussidio dall’arrivo fino all’agosto del 1943.
[18] ACPdS, cit., 12 ottobre 1941.
[19] Ivi, altro documento datato 12 ottobre 1941.
[20] ACS, cit., 28.11.1942, certificato medico.
[21] Dovendo essere curata (…) Le sue condizioni economiche non sono tali da sopportare le spese indispensabili per la sua guarigione. ACS, cit., 15 dicembre 1942, Fullenbaum al prefetto di Padova.
[22] ACPdS, cit. 3 dicembre 1942, Commissario Prefettizio alla Prefettura di Padova.
[23] ACS, cit., 15 dicembre 1942, Prefettura di Padova a Ministero dell’Interno – DGPS, DAGR.
[24] ACPdS, cit., 30.1.1943, Questura di Padova al podestà di Piove di Sacco.
[25] Si veda https://vhaonline.usc.edu/viewingPage?testimonyID=10127&returnIndex=0#.
[26] My Italian secret. The forgotten heroes, regia di Oren Jacoby – Usa, 2014, 92’.
[27] È un tratto che lo accomuna a diversi altri ebrei poi internati.
[28] Si veda Mario Carnali, articolo pubblicato sulla rivista Il Nuovo Amico del 25 gennaio 2013 (http://www.ilnuovoamico.it/2013/01/la-famiglia-virgili-giusti-tra-le-nazioni-inedito-da-cagli/). Nel documentario My italian secret (3’ 47’’ – 4’ 45’’), Charlotte afferma: “Mia madre era incinta di me. Fu testimone della Kristallnacht e decise che era arrivato il tempo di lasciare la Germania. Dieci giorni dopo il suo arrivo a Milano, io sono nata. Abbiamo vissuto a Milano per 2 anni e mezzo quando fummo inviati a Ferramonti. Avevo tre anni, ma nella mia memoria non ho mai sperimentato un sentimento negativo su quel posto. (…) è davvero uno strano sentimento tornare qui.”
[29] Forse potrebbe trattarsi di Friedel Iveusberg Biel con cui ci fu uno scambio di lettere nell’agosto del 1943. ACPdS, cit., Schedario stranieri soggiornanti nel Comune di Piove di Sacco, documenti del 7, del 13 e del 17 agosto 1943.
[30] Si veda Roberto Mazzoli, articolo tratto sulla rivista Il Nuovo Amico del 31 gennaio 2013 (http://www.ilnuovoamico.it/2013/01/2031/).
[31] Sul partigiano Samuele Panichi (1888-1980) e sulla sua banda si può consultare la ricerca di Alvaro Tacchini su http://www.storiatifernate.it/pubblicazioni.php?&cat=50&subcat=117&group=380&id=1372.
[32] Ibidem.
[33] Carnali, Il Nuovo Amico del 25 gennaio 2013, cit.
[34] Testimonianza di Artemio Palazzetti presente su http://versacrumricerche.blogspot.com/p/secchiano-autunno-1943-il-destino-di.html. Palazzetti si riferisce a Desolina Paruccini che aiutò i Fullenbaum insieme a suo marito Domenico.
[35] Ad esempio Charlotte ricorda di aver festeggiato il suo quinto compleanno a Secchiano. Artemio Palazzetti riferisce che Ester andava ogni giorno a prendere il latte a casa sua ed inoltre che la moglie del mugnaio, Rosa Guiducci Virgili, vendeva la farina ai Fullenbaum, ma poi, non avendo più soldi, Ester non si fece più vedere e per questo la Guiducci le propose di consegnarle la fede nuziale che in realtà, dopo la guerra, le restituì. Si veda la scheda dello Yad Vashem dedicata alla famiglia Virgili riconosciuta tra i Giusti tra le Nazioni nel 1992, https://righteous.yadvashem.org/?search=virgilio%20virgili&searchType=righteous_only&language=en&itemId=4057971&ind=0, e la testimonianza di Palazzetti. La storia dei Virgili è presenta anche in Israel Gutman, Bracha Rivlin, (a cura di), Liliana Picciotto (per l’edizione italiana), I Giusti d’Italia. I non ebrei che salvarono gli ebrei. 1943-1945, Mondadori, Milano 2006, pp. 88-89.
[36] È quanto riportato nella scheda dello Yad Vashem, cit.
[37] Carnali, Il Nuovo Amico del 25 gennaio 2013, cit.
[38] Testimonianza di Artemio Palazzetti, cit.
[39] Ibidem.
[40] Ibidem.
[41] Don Giuseppe Celli fu arrestato il 21 gennaio 1944 a Cagli e, dopo essere stato detenuto nelle carceri di Bologna e Castelfranco Emilia e nei campi di Fossoli e Bolzano, il 5 agosto 1944 fu deportato a Mauthausen. Morì a dicembre dello stesso anno nel castello di Hartheim, nell’ambito dell’operazione “14f13”. Si veda la scheda in http://www.ciportanovia.it/celli-don-giuseppe#:~:text=Celli%20don%20Giuseppe%2C%20nato%20a,come%20in%20realt%C3%A0%20aveva%20fatto.
[42] Carnali, Il Nuovo Amico del 25 gennaio 2013, cit.
[43] Ibidem.
[44] Testimonianza di Artemio Palazzetti, cit.
[45] Mazzoli, Il Nuovo Amico del 31 gennaio 2013, cit.
[46] Si tratta di una frazione tra Cantiano e Cagli, situata sulle pendici del Monte Petrano, a 577 m di quota.
[47] Carnali, Il Nuovo Amico del 25 gennaio 2013, cit.
[48] In My italian secret (1h 18’ 38’’ – 1h 21’), Charlotte fa visita alla tomba di Virgilio Virgili (11 novembre 1898 – 20 novembre 1945). “Dopo un po’ di tempo Virgilio pensò che fosse diventato troppo pericoloso rimanere a Secchiano così Mercedes, suo padre, i miei genitori e io partimmo per un lungo cammino a piedi”. Mercedes: “L’atmosfera bruciava veramente. C’erano le staffette partigiane. Uno disse: ‘Quel percorso lì è libero, andate’”. Charlotte: “E allora Mercedes e suo padre ci lasciarono e noi continuammo andando incontro agli Alleati e fummo consegnati a loro. Solo anni dopo ho saputo cosa era successo al padre di Mercedes. Fu preso dai nazisti e per tre giorni fu torturato e non è vissuto a lungo dopo queste violenze”.
[49] Nel documentario My italian secret (1h 28’ 17’’-1h 28’ 25’’) appare questa scritta: “Dopo la guerra la famiglia di Charlotte fu salvata di nuovo dai Paruccini, la famiglia che li aveva aiutati a Secchiano. I Paruccini condivisero il loro piccolo appartamento a Roma con Charlotte e i suoi genitori, fino a quando loro emigrarono in California nel 1950. Charlotte ha due figli e sei nipoti”.
[50] Negli Arolsen Archives è presente un elenco di ebrei condotti fuori dall’Italia, il “Resettlment movement 1950”. I Fullenbaum compaiono nelle lista e accanto al loro nome è riportato il seguente indirizzo: 889 39th Avenue San Francisco. Il documento è reperibile al seguente indirizzo: https://collections.arolsen-archives.org/en/archive/81673938/?p=1&s=fullenbaum%20wolf&doc_id=81673938.
[51] Roberto Mazzoli, cit. Nel documentario My italian secret (“2’58’’ – 3’ 31’’), Charlotte sottolinea quanto segue: “C’erano molte persone in tutta Italia che tenevano il segreto e che erano coinvolte nella nostra salvezza. Molti italiani coraggiosi rischiavano la loro vita. Ho sempre voluto che mio nipote sapesse ciò che hanno fatto”. Qualche cenno alla storia dei Fullenbaum è presente anche in Brian Fleming, Heroes in the Shadows: Humanitarian Action and Courage in the Second World War, Amberley Pub., Stroud 2019 e Elizabeth Bettina, It Happened in Italy: Untold Stories of How the People of Italy Defied the Horrors of the Holocaust, Thomas Nelson Inc, Nashville 2011.