Storie da Montecchio Maggiore
Il comune di Montecchio Maggiore, come buona parte della Provincia, fu coinvolto dalle vicende relative all’internamento di ebrei tra il 1941 e il 1943.
In questa sezione abbiamo voluto raccogliere alcune testimonianze pervenuteci grazie alla signora Lucia Muraro che nutre il forte desiderio di fare giungere a più persone possibile le storie di discriminazione e salvezza che riguardano il suo comune. La signora Muraro intende, in questo modo, far comprendere l’importanza della memoria e trasmettere un messaggio anche per i tempi che viviamo.
Tra le testimonianze, alcune riguardano le conseguenze delle leggi antisemite del 1938 sulla vita quotidiana, in particolare nell’ambito scolastico, altre ricostruiscono storie di cittadini di Montecchio che hanno contribuito alla salvezza di alcuni ebrei, aiutandoli a nascondersi e a fuggire. Le storie riguardano le seguenti persone che hanno scritto e firmato i loro racconti:
- la signora Lucia Muraro
- la signora Serafina Brugnolo
- la signora Gina Camerra Giordani
- la signora Dina Visonà
Le leggi antisemite a Montecchio
Dalla testimonianza scritta della sig.ra Serafina Brugnolo.
Frequentavo la IV elementare, classe femminile assai numerosa com’era normale negli anni precedenti la guerra. Fra compagni di scuola non ci si conosceva quasi, perché le ore impegnate nell’apprendimento delle varie nozioni scolastiche e negli esercizi di educazione fisica in palestra lasciavano ben poco tempo al gioco e alla conversazione.
Una mattina, entrate in aula e sedute ai nostri posti attendevamo che la Maestra, com’era suo solito in piedi di fronte a noi, iniziasse la lezione. Quella mattina però ci pose una domanda inaspettata e, ritengo, difficile da capire da parte nostra, scolarette di circa nove anni.
‘Fra di voi c’è qualche bambina ebrea?’ Non comprendendo, osservavo il volto della Maestra nell’intento di decifrare il significato dell’aggettivo “ebrea”. La Maestra guardava in silenzio, sorpresa e preoccupata, diritto davanti a sé. Mi girai per scoprire chi o cosa fissasse: nell’ultimo banco della fila centrale, una bambina bionda dai capelli lisci, esile, piccolina stava in piedi appoggiata allo schienale del banco addossato al muro. Era, purtroppo, una scolara ebrea. Non ricordo il suo nome, forse era da poco con noi, né so dove abitasse, ma quello fu l’ultimo giorno in cui la vedemmo e il primo e unico in cui la notammo. Sarà ancora viva?
Dalla testimonianza scritta della sig.ra Lucia Muraro:
Del tempo in cui agli ebrei italiani furono tolti i diritti civili conservo il ricordo di un viaggio a Vicenza con mia mamma e un fratellino che abbisognava di una visita medica. Camminando sotto un sole infuocato (credo fosse l’estate 1939) lungo un viale ci fermammo ad una palazzina. Era mezzogiorno passato e non c’era nessuno per strada. Ci aprì confare guardingo il medico stesso; indossava il camice, era un medico ebreo, ne ricordo il nome: Orefice. Anche lui, come gli altri ebrei italiani, già da un anno non poteva lavorare, non poteva esercitare la propria professione. Noi andavamo da lui a quell’ora per non essere notati. I miei si sentivano dalla parte di chi era perseguitato e volevano essere solidali.
Dalla testimonianza scritta di Gina Giordani in Camerra.
Primo ricordo
Nel 1942-43 io frequentavo la scuola media di Via Riale (VI). La mia insegnante di Lettere, Sign.na Nicoletti, si era accorta che mi piaceva tanto leggere e, purtroppo, la biblioteca scolastica offriva poca scelta. Così cominciò a prestarmi dei libri suoi.
Molti di essi erano ricoperti con una consistente copertina blu-scuro in modo che non si potesse leggere il nome dell’autore. Erano libri semplici, dolci quasi tutti di racconti. Se posso fare un confronto, per quanto ricordo, assomigliavano a ‘Il giardino dei Finzi-contini’ che ho letto parecchi anni dopo.
In uno di questi libri ho trovato un appunto che ho ricopiato e che, penso, fosse dell’Autrice o della mia insegnante.
Lo riscrivo:
La dittatura fascista ha soppresso quelle condizioni di libertà, mancando le quali, l’insegnamento perde ogni dignità, perché cessa di essere strumento di libera educazione civile e si riduce a servile adulazione del partito dominante. Mi devo dividere dai miei alunni e dai miei colleghi con profondo dolore, ma con la coscienza di compiere un dovere di lealtà verso di essi e di rispetto verso me stessa. Ritornerò a servire il mio paese nella scuola, quando si ricostruirà una società libera e civile.
Ed è ritornata nel 1945.
Io allora mi ero iscritta alle magistrali di Piarda Fanton. Il primo giorno di scuola il Preside ci ha riuniti nell’Aula Magna per salutare e dare il bentornato alla signora Laura Lattes che riprendeva, dopo sette anni (se ben ricordo), l’nsegnamento nella sezione A dell’Istituto Magistrale di Vicenza. Ho conosciuto allora l’Autrice dei libri che tanto volentieri avevo letto negli anni delle scuole medie. Era una signora alta, magra, bionda e pallida e che tanto aveva sofferto.
Ti ricordo.
Secondo ricordo
Dalla nascita al matrimonio, io ho sempre abitato in Via Lorenzoni n° 3 a Montecchio M. La mia casa aveva un cortile in comune con molte altre e quello era un luogo di giochi e riunioni. Al n° 5 abitava la famiglia Cozza, ossia i nonni materni di Antonio Scalabrini (confezioni Castelli). La nonna di Antonio aveva un fratello emigrato in Germania. Costui aveva fatto fortuna importando in Germania frutta-verdura e vini italiani. Si era sposato e aveva avuto dei figli, in Germania, ma li portava spesso in Italia, dove si fermavano per diversi giorni dalla zia e giocavano nel nostro comune cortile. Erano simpaticissimi e parlavano perfettamente oltre al tedesco, che nessuno capiva, il dialetto di Montecchio.
Un giorno questi ragazzi stavano chiacchierando col gruppo nostro e una delle loro numerose cugine disse: ‘Walter (così si chiamava il ragazzo più grande) quel bambino laggiù (e indicava il piccolo Peter di 5 anni) è un ebreo, perché in quella casa lì ospitano una famiglia ebrea”.
Walter si portò la mano sull’anca destra, come a voler prendere un’arma e, con piglio feroce e in perfetto dialetto disse: ‘Se gavesse la pistola ghe spararla!’
Erano buoni e simpatici ragazzi, figli di buoni e generosi italiani, ma la cultura antiebraica e razzista aveva lavato il loro cervello e avvelenato il loro cuore.
La signora Giordani nelle lettera parla del piccolo Peter. Si riferisce a Peter Buchwald. Era internato con il padre Emmerico (Mirko) e con la madre Gertrud Gelb.
Inverno del 1942
La storia dei Buchwald è una delle più interessanti e toccanti.
Mirko era direttore di fabbrica di seta. Di nazionalità croata era domiciliato con la famiglia a Varasdin. Con l’occupazione tedesca i Buchwald vennero internati nel campo di concentramento di Gospic. Fuggiti dal campo, si nascosero per un mese nei dintorni attendendo che le truppe italiane giungessero sul posto. All’arrivo degli italiani si consegnarono a loro e dopo tre mesi ottennero un salvacondotto per Porto Re. Giunti a Vicenza il 3 febbraio 1942, furono internati a Montecchio Maggiore dall’8 febbraio 1942 presso la famiglia Giordani.
Il 5 febbraio Mirko Buchwald rilascò la sua testimonianza alla Questura di Vicenza che poi la inviò al Ministero dell’Interno:
Io sottoscritto Emmerico Buchwald di Ernesto mi onoro di esporre a cod. On. Ministero. Quanto segue:
Risiedevo colla moglie Gertrude e col figlio Pietro di anni 4 a Varasdin (Croazia) dove dirigevo la fabbrica di seta esistente in quella città.
Scoppiata la guerra sono stato messo assieme alla moglie ed al bambino ed assieme ai miei vecchi genitori in un campo di concentramento a Gospic.
L’unico motivo di tale provvedimento è stato quello che siamo di razza ebraica.
Sono rimasto nel campo di concentramento alcune settimane durante le quali temevo di giorno in giorno di essere ucciso perché tale è stata la sorte di centinaia di altri miei compagni di sventura, uomini, donne e bambini, che ho visto sparire sotto i miei occhi. Non potendo più sopportare i patimenti miei e dei miei familiari approfittai dell’occasione in cui gli internati dovevano essere trasportati in un altro campo, per fuggire assieme alla moglie ed al bambino, tamto più che avevo avuto confidenzialmente la notizia che il cambiamento di residenza significava che la nostra posizione sarebbe diventata ancora peggiore – (infatti seppi poi che i miei genitori che non avevano voluto seguirmi nella fuga sono da considerarsi morti).
Mi rifugiai in una casa diroccata nella speranza che la località venisse occupata dalla truppe italiane; gente del popolo e gli antichi miei dipendenti provvidero generosamente a farci mandare dei viveri e dei capi di vestiario. Dopo circa un mese la mia speranza si realizzò perché effettivamente la località venne occupata dalle truppe italiane.
Venni portato davanti al Comandante italiano al quale spiegai la mia situazione. Egli si rese conto immediatamente di tale situazione e mi diede subito completa libertà.
Tre mesi dopo lo stesso Comandante rilasciava a mia richiesta a me ed a mia moglie un salvacondotto per Porto Re.
Da Porto Re sono venuto in Italia nella certezza di trovare un rifugio sicuro in mezzo al generoso popolo italiano.
Ho la possibilità di andare in Isvizzera dove potrò sistemare definitamene la mia posizione.
Intendo rimanere in Italia soltanto il tempo necessario per poter svolgere le pratiche per entrare in Isvizzera.
Chiedo a codesto On. Ministero di voler permettere a me, a mia moglie ed al mio bambino di soggiornare per questo periodo in Italia, in quella qualsiasi località che esso riterrà più opportuno di fissare. (…)
Confido che codesto On. Ministero vorrà accogliere favorevolmente la mia domanda mettendo fine al nostro doloroso calvario e salvando così tre giovani vite umane.”
In un’intervista rilasciata a Elena Pilati, Gina Giordani e sua sorella Irma hanno aggiunto altri particolari sulla presenza dei Buchwald nella loro casa:
Abitavamo in via Lorenzoni. Mia mamma affittava le stanze per racimolare un po’ di soldi. Se n’erano appena andati dei ragazzi reduci dalla Libia quando arrivarono i carabinieri e ci affidarono una famiglia di ebrei. Erano ricchissimi: bei vestiti, pellicce, molti soldi e cibi che noi ci sognavamo. Provenivano da Zagabria, dove avevano una fabbrica di tessuti. Erano dovuti fuggire e avevano visto molte atrocità. Avevano un figlio che noi tutti chiamavamo Peti. Erano abituati ad avere la cameriera, per cui noi lavavamo e vestivamo il bambino, gli volevamo tanto tanto bene. Erano molto intelligenti e imparavano subito le lingue. Il bambino fu istruito dalla maestra Danese, sapeva il tedesco, il croato, l’italiano e il dialetto. Spesso andavano a Vicenza, ma dovevano sempre firmare un registro dai carabinieri e dovevano rientrare in serata, altrimenti mia mamma sarebbe dovuta andare a denunciarli. La signora faceva dei dolci buonissimi. Il bambino giocava con noi e con gli altri bimbi della corte, ma era molto più educato di loro. La mamma lo chiamava a dormire alle otto di sera e lui le ubbidiva sempre, pur controvoglia. Non c’erano problemi con loro. Noi non sapevamo nemmeno cosa fosse l’antisemitismo e il fascismo ci pareva una cosa bella, ci pareva che dovesse durare in eterno… Ma c’erano molte cose che non sapevamo. Non abbiamo più saputo nulla di questa famiglia. Sono fuggiti in Argentina aiutati dal padre di Lucia Muraro. Poi nulla. Magari potessimo sapere che fine ha fatto Peti, magari….
L’aiuto, la fuga e la salvezza.
1) La famiglia Buchwald
Dalla testimonianza scritta di Lucia Muraro.
Avevo dodici anni quando nel 1942 una ventina di profughi ebrei che fuggivano dalla Yugoslavia occupata dai tedeschi arrivarono a Montecchio. Qui dovettero sottostare a norme severe circa i loro movimenti ma almeno, fino a quando, l’anno seguente, il nord Italia non fu occupato dalle truppe tedesche, non ebbero a temere per la loro vita.
I miei genitori strinsero allora amicizia con i coniugi Buchwald ospiti presso la signora Giordani. Mirko e Gertrud avevano un bambino di sei anni, Peter, o Petty, come era chiamato; si trattava di un bimbo eccezionale: in pochi mesi fu in grado di parlare perfettamente l’italiano e il veneto. Petty era spesso a giocare con i miei fratelli e sorelle ed era molto coccolato dalle sorelle Giordani.
I Buchwald venivano da Zagabria dove lui lavorava come direttore di una tessitura. Quando le truppe tedesche occuparono la Yugoslavia e iniziò la caccia agli ebrei che venivano deportati, i Buchwald furono salvati dalla loro domestica la quale procurò loro un nascondiglio sicuro, in attesa di organizzare il viaggio oltreconfine in Italia.
Ricordo che Mirko Buchwald un giorno ci raccontò della fine di una famiglia ebrea, loro vicina, che fu bruciata viva in casa perché si erano rifiutati di aprire ai tedeschi che erano andati a prelevarli. ‘Morirono tutti, anche i bambini: sentimmo le loro urla, grida di aiuto, a lungo. Fu orribile!’
L’anno seguente, con la caduta del Governo Fascista, ci fu poco tempo per gli ebrei in Italia per fuggire prima che l’8 settembre le truppe tedesche occupassero il nostro territorio non ancora raggiunto dalle truppe alleate. Ci fu chi raggiunse la Svizzera, chi passò le linee alleate. Per i Buchwald che avevano con sé un bambino non era possibile pensare ad una fuga rocambolesca. Fu allora che mio papà andò a Roma dove aveva delle conoscenze riuscendo ad ottenere dei documenti falsi per i nostri amici che poterono così partire per l’Argentina con l’ultima nave prima che i tedeschi occupassero il nord Italia.
Tutto fu fatto segretamente, nessuno doveva sapere della loro partenza. Ricordo la pena, l’angoscia nostra per il dramma di quegli amici. Più tardi, quando fu rivelata l’orrenda verità dei campi di sterminio potemmo comprendere a fondo di quale tragedia erano parte quegli ebrei che Montecchio ospitò allora.
Ammirazione suscitò a guerra finita quando si seppe del coraggio della signora Visonà, vedova di un medico e con cinque figli. La signora salvò due ebrei, madre e figlio nascondendoli nella propria casa con grande rischio per sé e per i figli.
Nell’intervista rilasciata sempre a Elisa Pilati, Lucia Muraro sofferma la sua attenzione su altri particolari:
Dopo il 25 luglio la situazione cominciava a farsi critica. Mio papà aveva delle conoscenze a Roma e riuscì a procurar loro dei documenti per l’espatrio. Si imbarcarono con l’ultima nave in partenza da Genova per l’Argentina, dove avevano una zia. I loro bagagli non arrivarono mai, forse furono distrutti durante i bombardamenti alla stazione di Bologna. Loro arrivarono in Argentina, ma non ci scrissero mai nulla. A noi e alle sorelle Giordani arrivò solo un pacchetto di dolciumi. È un peccato, mi piacerebbe molto sapere se Peti è ancora vivo...
Seppur brevemente, va sottolineato che l’amicizia delle Giordani con la famiglia Buchwald non fu senza rischi. La signora Irma risulta infatti segnalata dai Carabinieri alla Questura, il 7 giugno del 1942, per il suo atteggiamento amichevole verso gli ebrei e per essere andata al cinema con Emmerico e Gertrud.
I documenti dell’Archivio di Stato di Vicenza sembrano confermare le testimonianze fin qui riportate. Il 13 novembre del 1942 il Consolato dell’Argentina a Milano scrisse ai Buchwald che era stato concesso il “permesso di libero sbraco nella Repubblica assieme alla vostra famiglia e quindi questo consolato è autorizzato a vistarvi i passaporti”.
Il 16 novembre Emmerico chiese di potersi recare a Milano per i visti. Si mise in moto la macchina burocratica e il 21 dicembre giunse in aiuto della famiglia Buchwald anche una lettera al Ministero dell’Interno della DELASEM (la Delegazione per l’Assistenza agli Emigrati Ebrei). Passarono dei mesi e a giugno il Ministero, con comunicazione del 4 giugno del 1943 alla Prefettura di Vicenza, gelò le speranze della famiglia Buchwald scrivendo che “la domanda (…) tendente ad ottenere il permesso di uscita dal Regno non può essere accolta.”
Gli ebrei non si danno però per vinti. Probabilmente è in questa fase che interviene Giuseppe Muraro. Il 3 agosto del 1943, i Carbinieri di Montecchio segnalano alla Questura di Vicenza che i Buchwald “si sono allontanati da Montecchio Maggiore dal I andante. Esse nel pomeriggio erano ancora presso la signora Vittorio Fontana (così nel documento) presso la quale erano alloggiate e nel tardo pomeriggio si sono allontanate dal loro alloggio, senza dir nulla né alla predetta signora né ai colleghi ebrei. Dalle informazioni assunte, pare che il Buchwald aveva l’intenzione di emigrare all’estero, e lo dimostra la continua corrispondenza che egli aveva coll’ufficio della CIT di Trieste per ottenere il passaporto. Si prega diramare le ricerche.” Firmato: il Maresciallo Maggiore Comandante la stazione Balbiano Luigi.
I Buchwald avevano davvero fatto perdere le tracce e il 6 agosto del 1943 sono a Roma, “arbitrariamente da colà allontanati per tema – a loro dire – di una invasione tedesca, secondo le voci colà correnti”, come recitava la lettera della Regia Questura di Roma alla Prefettura di Vicenza. L’ufficio di Roma, “poiché dall’esame del passaporto ex jugoslavo in loro possesso risulta che hanno già il visto di ingresso in Argentina e che hanno in corso le pratiche per i visti di transito spagnolo e portoghese”, non li fermò in attesa di istruzioni dal Ministero.
In qualche modo, i Buchwald avevano guadagnato tempo ed avevano una possibilità in più per partire, come infatti poi successe.
La signora Muraro, nel suo encomiabile lavoro di scavo nei ricordi familiari, ha trovato una lettera importantissima e inedita, datata 10 agosto 1943, che Mirko Buchwald scrisse al signor Giuseppe Muraro, pochi giorni dopo il fermo avvenuto a Roma.
Caro Amico!
Eccoci a Roma sani, salvi e ciò che per noi è ancora più importante legalizzati.
Davvero, la cosa non è stata così facile, me hanno arrestato, però infine coi nervi calmi potevo spiegare e chiarire il motivo del nostro viaggio e l’autorità come dappertutto gentile e generosa, ci ha dato infine il soggiorno affinché io possa personalmente sbrigare presso il Ministero la pratica per il nostro espatrio.
Come ora la nostra partenza potesse avvenire in breve tempo (il mio amico Sandor parte lunedì 16 m.c.) devo rivolgermi di nuovo a Voi e chiederVi un grande favore. Si tratta della roba che è rimasta ancora colà. Credo che non Vi offenderete se prego la Vostra moglie di aprire tutte le tre valige e di pendere fuori la seguente roba: 3 pai di scarpe da uomo, 1 paio di pantoffoli, 2 mutande lunga da uomo, 3 maglie da uomo e tutti gli attaccapanni. Tutta questa roba Vi prego di conservare per se ed utilizzare per la Vs famiglia. Credo che si possano fare dei vestiti per i ragazzi ect. Così basteranno le due valige cui si possono chiudere colla chiave. Per la pelicia Vi prego di comprare in quel negozio vicino Orvietti una valigia di carta, quella più grande col prezzo di 97 Lire. Dunque queste tre valige vi prego di consegnare alla ditta Remiero incaricandola di spedirmi queste valige nel modo più celere e che le spese saranno pagate da me. Per la valigia e per le spese che avrete fino la ditta Remiero mi pregio accludere £ 200. il mio indirizzo è: Buchwald Mirko, Albergo Fontana, Piazza Trevi Roma.
Per ora Vi soltanto ringrazio cordialmente sperando che verranno i tempi quando anche i potrò dimostrarmi riconoscente per Vostra gentilezza che avete dimostrato verso di me.
Nell’attesa di un cenno da Voi Vi saluto distintamente.
Vostro Buchwald Mirko
La signora Muraro ha precisato che della lettera non ha trovato la busta e che “della richiesta di spedire le valige a mezzo la ditta Remiero so per certo che i miei hanno fatto puntualmente tutto trattenendo solo gli appendipanni perché troppo ingombranti. La ricevuta della spedizione presumo sia stata inviata all’indirizzo svizzero perché tra i documenti non c’è. Preciso che mio papà era un “ragioniere” scrupoloso sino all’inverosimile. Teneva nota di tutto: se qualcosa manca per questa spedizione sono certa si tratti di carte spedite all’interessato quando ciò si è reso possibile”.
Un altro particolare importante è emerso dai ricordi della signora Lucia Muraro: l’appunto del signor Buchwald su un mobile di cucina e precisamente sul cassetto di una credenza.
“Qualche mese fa mi ero ricordata di quei due indirizzi scritti a mano dal nostro amico ebreo, il signor Buchwald, nella primavera del 1943. Gli indirizzi sono ancora leggibili a distanza di tanti anni. Uno è di Zurigo dove risiedevano gli zii di Buchwald, i quali aiutavano il nipote e la sua famiglia spedendo del danaro che un nostro amico impiegato di banca, il signor Sartori, riusciva a far arrivare.
L’altro indirizzo, di Roma, era per via di un incarico che mio papà ha ricevuto dai Buchwald, cioè di recarsi laggiù, incontrare un certo signore presso una certa pensione per farsi dare dei documenti d’imbarco e forse altri ancora così che loro potessero lasciare l’Italia per vie normali”
I due indirizzi sono: Ludwig Buchwald, Stampfenbachplatz, 4 Zurigo e Julio Oblath, Pensione Beltrame, Via XXIV Maggio, Roma.
2) La famiglia Kauffman
Dalla testimonianza scritta della signora Dina Visonà
Lettera di Dina Visonà a Lucia Muraro – Vicenza 1° maggio 2005
Cara Lucia,
la prego di scusare il mio ritardo, ma i neri e tristi ricordi non mi danno la serenità per affrontare l’argomento. Sarò molto concisa e spero di essere sufficientemente coerente.
La mamma ha subito accettato di accogliere Kurt e la mamma (ebrei) a casa nostra e li ha sistemati nella sua camera da letto con bagno. I vicini, convinti antifascisti ne parlarono e quindi subito fu fatto scavare in studio due incavi, coperti da parquet che copriva tutti i …..
Due perché uno era riservato all’ebreo e l’altro a Corrado, il figlio del maestro Murdocca. Appena si diffondeva la voce di controllo i due venivano rinchiusi nei suddetti incavi e la mamma si vestiva in modo nostrano con parrucca. Il pericolo di scoperta si faceva più assillante così con l’aiuto della signora Sala sorella del prof. Cevese e moglie del dott. Sala condussero la mamma ebrea, vestita da suora a casa della Provvidenza, allora sfollate a Priabona e il figlio con Corrado in Svizzera.
….. e noi figli tutti e cinque una missione di controllo. In quei giorni lei aveva, la mamma nostra, ospitato anche una famiglia di partigiani ricercati dalla Polizia. I Roncolato di Montecchia di Corsara (VR) amici di famiglia. Non posso descrivere quante preoccupazioni per la mamma considerando il pericolo per lei, noi e tutti gli altri. Non posso dimenticare quel periodo della nostra adolescenza troppo impegnativa per la nostra età. Tutto però è andato bene, perché tutti salvi. A fine guerra sono rientrati tutti: i Roncolato venivano sempre a salutare. Corrado anche, invece i due ebrei se ne sono andati senza parlare. La vita è questa. Fare il bene senza mai pretendere riconoscenza; era il motto della mamma e nostro.
Per precisione nella lettera si parla di Kurt Kauffman e di sua madre Marianna Maj. Di nazionalità tedesca erano muniti di passaporto n° 442/39 rilasciato a Lubiana il 20 febbraio 1939 valevole fino al 19 febbraio 1941. Fermati alla frontiera di Buccari dagli ustascia, il 14 maggio 1941 vennero presi in consegna dai carabinieri di Abbazia. Furono internati a Montecchio dal 28 febbraio 1942. Si allontanarono dal comune di internamento il 12 dicembre 1943.
In effetti, dopo l’8 settembre 1943 tutti gli internati si dileguarono. I Carabinieri disposero le loro ricerche, ma gli 11 ebrei fuggiti tra il 10 e l’11 settembre non furono più rintracciabili, mentre restarono a Montecchio, almeno fino alla metà di dicembre del 1943, Kurt con la madre Marianna Mai di 57 anni. I due si allontanarono “per ignota destinazione” nella notte del 12 dicembre. Una fuga ben progettata, come si evince dalla lettera della signora Visonà, dato che fino alla sera precedente, alle 19, i due simulavano tranquillità e rispetto delle leggi, andando ad apporre la firma di controllo dai Carabinieri.