L’8 settembre in Italia
(sintesi tratta da Liliana Picciotto, Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall’Italia (1943-1945), Mursia, Milano 2002)
La caduta di Mussolini, il 25 luglio 1943, non valse a cancellare dal corpus legislativo le leggi antiebraiche: questa omissione fu soprattutto una scelta politica, poiché il nuovo governo monarchico si adoperò in tutti i modi per evitare un conflitto aperto con i tedeschi.
Contemporaneamente, e non a caso, si era messo in moto il processo che avrebbe avviato la cosiddetta soluzione del problema ebraico in Italia. Infatti, il 19 maggio 1943, Eichman aveva investito della questione uno dei collaboratori appartenenti al suo staff dell’ufficio antiebraico, il consigliere giuridico Friedrich Bosshammer.
L’annuncio dell’armistizio con gli Alleati, dato l’8 settembre 193, ebbe per l’Italia gravi conseguenze politiche e militari. L’esercito italiano venne disarmato con inaspettata rapidità da unità della Wermacht già di stanza in Italia o fatte venire appositamente attraverso il Brennero, la nazione fu assoggettata al potere militare tedesco e ridotta quindi al rango di paese occupato. Nei mesi successivi oltre 600.000 soldati italiani vennero deportati nei campi di concentramento a nord delle Alpi. Con la fuga a Brindisi del re e del capo di governo Badoglio, l’attività del governo centrale rimase paralizzata.
In seguito agli accordi armistiziali con le autorità alleate, il 10 settembre 1943, il Capo della Polizia del governo Badoglio, Carmine Senise, emanò l’ordine di liberazione degli ebrei stranieri dai campi e dalle località di internamento: “In dipendenza conclusione armistizio, pregasi disporre che gli internati sudditi nemici siano liberati. Internati suddetti che non abbiano possibilità sistemazione per proprio conto, possono essere lasciati campi o comuni residenza, continuando corresponsione loro favore sussidio giornaliero. In tal caso, nei confronti internati nei comuni dovranno essere revocate misure restrittive libertà mantenendo loro riguardi generica vigilanza».
Era troppo tardi perché il provvedimento potesse essere applicato: da due giorni ormai i tedeschi avevano iniziato l’occupazione militare dell’Italia. Difatti, tre giorni dopo, il 13 settembre, lo stesso Senise diffuse ai questori un contrordine del seguente tenore che riguardava sia gli ebrei sovversivi, già liberati il 29 luglio precedente, sia gli ebrei stranieri: «Arrestare i comunisti più accesi specialmente quelli recentemente liberati, gli elementi turbolenti in genere, compresi gli ebrei pericolosi per l’ordine pubblico».
Al momento dell’armistizio incapparono nell’occupazione tedesca oltre 10.000 ebrei stranieri, vale a dire quasi un quarto di tutti gli ebrei e delle persone di origine ebraica colpite dalla politica razziale che si trovavano in Italia.
Quanto agli internati nei comuni, ve ne erano tra i 2500 e i 2600 nell’Italia settentrionale e tra i 1000 e i 1100 in Italia centrale. La notizia del rapido smantellamento dell’esercito italiano e del contemporaneo imporsi dell’autorità militare tedesca suscitò ovunque il terrore, nei campi come nei comuni. Ovunque se ne presentasse l’occasione, gli internati, soprattutto gli sloveni deportati dalla Venezia Giulia e gli jugoslavi, oltre naturalmente agli ebrei, tentavano la fuga.
Con la nascita del governo fascista il 23 settembre, Senise fu destituito, arrestato e deportato, mentre il 1° novembre 1943 il nuovo governo abrogò i precedenti provvedimenti liberatori dai vincoli dell’internamento emanati dal governo Badoglio. Naturalmente anche i comandi militari germanici avevano da dire la loro in materia di internamento degli ebrei stranieri e italiani sovversivi.
Il 25 novembre successivo il Ministero dell’Interno, per corrispondere a una richiesta della polizia tedesca, richiese un rapporto dettagliato sulla situazione dei campi in Italia e anche di essere informato se altri ne necessitavano.
Il 26 novembre un appunto steso per la polizia tedesca informava sull’ubicazione dei campi in funzione: Fabriano, Civitella del Tronto, Corropoli, Isola di Gran Sasso, Nereto, Notaresco, Tossiccia, Fraschette d’Alatri, Civitella della Chiana, Montalbano di Rovezzano, Bagno a Ripoli, Scipione di Salsomaggiore.
Come in tutti i paesi occupati dalla Wermacht, anche in Italia venne creato un apparato di polizia che riceveva ordini direttamente dall’Ufficio centrale per la sicurezza del Reich.
L’organo burocratico direttamente responsabile della politica antiebraica, nel Reich come nei Paesi occupati, era l’Ufficio IV (AMT IV) del RSHA (Reichssicherheitshauptamt), diretto a Berlino da Heinrich Muller. In questo Ufficio IV, detto anche Polizia Segreta di Stato (Geheime Staatspolizei – Gestapo), agivano vari sotto-uffici, fra i quali il B4 specialmente deputato alla ricerca degli ebrei, alla loro cattura e deportazione. Ne era capo, presso la Centrale berlinese, Adolf Eichmann il quale, con uno staff di una ventina di uomini, ebbe il compito di coordinare il genocidio della comunità ebraica europea.
Quanto all’organigramma italiano del RSHA, a Karl Wolff, Comandante supremo delle SS e della polizia, fu sottoposto, come Capo della Polizia di Sicurezza (Befehlshaber der Sipo -SD BdS), Wilhelm Harster, fino a quel momento BdS per l’Olanda. A Wolff rispondeva anche il Comandante Superiore della SS e della Polizia (Hoherer SS und Polizeifuhrer – HSSPF) Odilo Globocnik con giurisdizione limitata al Litorale Adriatico. Fino a quel momento, Globocnik aveva diretto in Polonia l’azione di sterminio degli ebrei mediante gassazione e la spoliazione sistematica dei loro averi nel campo della morte di Maydanek-Lublino e in quelli della cosiddetta Aktion Reinhard: Belzec, Sobibor e Treblinka.
Anche il BdS Wilhelm Harster, come il plenipotenziario Rahn e il Capo supremo della Polizia e delle SS, Wolff, era stato preavvertito alla fine di agosto del 1943 di provvedere, in caso di defezione italiana dall’alleanza, all’insediamento territoriale di una Centrale della Polizia di Sicurezza e delle filiali da essa dipendenti.
Harster si mosse subito dopo l’annuncio dell’armistizio: il 9 o il 10 settembre era già a Bolzano, capitale dell’Alpenvoriand, e, intorno al 20, a Gardone, probabilmente per conferire con Rahn e con il maresciallo Rommel. L’8 ottobre 1943 si trasferì a Verona, dove rimase in qualità di BdS fino alla fine della guerra. Harster aveva inoltre predisposto, fin da settembre, una rete di Comandi Regionali (Kommandeure Sipo – SD = KdS), di Comandi Avanzati (Aussenkommandos = AK; sorta di commissariati) e di Posti Avanzati (Aussenposten = AP; piccoli comandi periferici), a loro volta dipendenti dagli AK. Direttamente sottoposti al BdS di Verona, cioè senza un AK come intermediario, erano gli AP di Brescia, Mantova, Cremona e Vicenza.
In sintesi, le autorità tedesche stabilmente coinvolte nella politica antiebraica in Italia furono essenzialmente due:
- la polizia nei suoi due rami di Polizia di Sicurezza e di Polizia dell’Ordine;
- l’Ambasciata, o più precisamente per l’Italia, il Plenipotenziario del Reich.
La deportazione degli ebrei dall’Italia ebbe inizio a metà settembre, a Merano, dove le SS sudtirolesi appartenenti alla polizia di sicurezza del luogo arrestarono e fecero portare via 35 ebrei già da tempo lì residenti. Un mese dopo, il 16 ottobre, ebbe luogo il famigerato rastrellamento nell’antico ghetto nel cuore di Roma.
Per quanto riguarda la RSI, il «problema ebraico», come fatto politico, sembrava nel frattempo accantonato: il secondo consiglio dei Ministri della nuova Repubblica si era svolto a Salò il 28 ottobre e i governanti non sembrarono dar peso alle gravissime retate di Roma e dell’Italia settentrionale (condotte dalla polizia tedesca, in molti casi peraltro coadiuvata dalla polizia italiana). Che ne fossero al corrente è certo, poiché ci sono rimaste delle relazioni in proposito, tempestivamente redatte dai Commissariati di Pubblica Sicurezza e inoltrate al questore della capitale.
Mussolini, malgrado l’apparente disinteresse, non poté certamente gradire che sul suo territorio – senza preavviso né consultazione alcuna si effettuassero rastrellamenti di cittadini italiani, sia pur ebrei: era l’ennesima conferma di ciò che i tedeschi intendevano per «alleanza» con la Repubblica di Salò. Con l’invio di Dannecker in Italia, agli inizi di ottobre, essi avevano visibilmente approfittato del vuoto di potere e della mancanza di strutture amministrative in loco.
In materia antiebraica, la prima mossa italiana autonoma in risposta all’atteggiamento tedesco giunse il 14 novembre sotto forma di enunciato ideologico inserito nel lungo testo programmatico della nascente Repubblica Sociale Italiana.
Il documento – noto come «Carta di Verona» – era articolato in 18 punti che regolavano varie materie; al punto 7 la Carta recitava:
Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri, durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica.
Questa formulazione era sufficientemente vaga e imprecisa da permettere qualunque interpretazione pratica: dal mantenimento delle precedenti leggi razziste al loro irrigidimento, dall’espulsione degli ebrei al loro arresto.
Le misure applicative del punto 7 non si fecero attendere; il 30 novembre il Ministro degli Interni dispose – con l’ordinanza di polizia n. 5 – l’arresto e l’internamento degli ebrei, nonché il sequestro dei loro beni:
1) Tutti gli ebrei, anche se discriminati, a qualunque nazionalità appartengano, e comunque residenti nel territorio nazionale debbono essere inviati in appositi campi di concentramento. Tutti i loro beni mobili e immobili devono essere sottoposti a immediato sequestro in attesa di essere confiscati nell’interesse della RSI, la quale li destinerà a beneficio degli indigenti sinistrati dalle incursioni aeree nemiche.
2) Tutti coloro che, nati da matrimonio misto, ebbero, in applicazione del le leggi razziali vigenti, il riconoscimento di appartenenza alla razza ariana, debbono essere sottoposti a speciale vigilanza dagli organi di polizia.
3) Siano pertanto concentrati gli ebrei in campo di concentramento provinciale, in attesa di essere riuniti in campi di concentramento speciali appositamente attrezzati».
Questo gravissimo provvedimento rese ogni ebreo, a partire dal 1° dicembre 1943, passibile di arresto da parte delle autorità italiane. E in effetti, nei mesi seguenti, i fermi vennero attuati direttamente dalle questure della RSI dopo minuziose ricerche domiciliari. L’elaborazione e l’applicazione della politica antiebraica era affidata ad alcuni organi specifici dello Stato, in particolare a quelli facenti capo al Ministero dell’Interno. Dal 23 settembre del 1943 al 21 febbraio del 1945, esso fu guidato da Guido Buffarini Guidi, sostituito poi, negli ultimi mesi della RSI, da Paolo Zerbino.
I più facili da identificare e da arrestare erano, come sempre, gli ebrei stranieri che videro automaticamente mutare il loro status da internati per ragioni di guerra a internati per la deportazione. Gli arresti ebbero inizio il 1° dicembre, non appena i “capi delle province” ebbero ricevuto le disposizioni dell’autorità centrale. Le persone arrestate venivano portate prima nelle camere di sicurezza delle questure, dove rimanevano fino a che fossero approntati i campi di concentramento provinciali. In seguito vennero a volte portate direttamente nei campi.
Il primo campo, villa Contarini-Venier a Vò Euganeo, in provincia di Padova, venne aperto il 3 dicembre. Da allora fino alla metà di agosto 1944 è comprovata l’esistenza di campi in ventuno province in tutto. Tra questi vi era la colonia estiva di Tonezza del Cimone.
Il 10 dicembre 1943, una successiva ordinanza del nuovo capo della polizia, Tamburini, attenuava la portata dell’ ordine generale di arresto del 30 novembre, esentando gli anziani oltre i settanta anni e gli ammalati gravi da tale provvedimento. In esso, si ribadiva inoltre che i figli di matrimonio misto rientravano nella categoria dei protetti:
In applicazione recenti disposizioni, ebrei stranieri devono essere assegnati tutti at campo di concentramento. Uguale provvedimento deve essere adottato per ebrei puri italiani, esclusi malati gravi et vecchi oltre anni 70. Sono per ora esclusi i misti e le famiglie miste salvo adeguate misure di vigilanza.
Tale ordinanza fu successivamente ripetuta due volte, il 22 gennaio e il 7 marzo 1944.
La conseguenza dei decreti italiani del 30 novembre e del 10 dicembre 1943 fu quella di creare una notevole discrepanza rispetto ai principi tedeschi nel trattamento degli ebrei, tanto che di lì a poco sorsero in proposito logoranti conflitti tra le polizie dei due Paesi. In sintesi, emersero i seguenti casi particolari:
- a) ebrei ultrasettantenni
- b) ebrei gravemente malati
- c) figli di matrimonio misto, caso di battezzati prima del 1° ottobre 1938
- d) figli di matrimonio misto, caso di ebrei praticanti o non battezzati
- e) ebrei coniugati con non ebrei
Secondo gli italiani, quanti rientravano nei casi a), b), c), e) non erano da arrestare, almeno momentaneamente; per i tedeschi, invece, erano da arrestare i casi a) e b), non erano da arrestare i casi e), per i casi c) e d) vi era qualche problema legato a diversi principi usati da italiani e tedeschi per la determinazione della razza.
Per la legge tedesca era ebreo chi discendeva da tre avi completamente ebrei. Se gli avi ebrei erano solo due, tale persona era da considerarsi ugualmente ebrea se:
- fosse stata iscritta ad una comunità ebraica al momento dell’emanazione della legge (di Norimberga) o vi fosse entrato successivamente a far parte;
- fosse sposata con un ebreo al momento dell’entrata in vigore della legge o successivamente;
- fosse nata da un matrimonio di un ariano con un ebreo, matrimonio celebrato dopo l’entrata in vigore della legge;
- fosse nata da rapporti extraconiugali con un ebreo o fosse nato fuori dal matrimonio dopo il 31 luglio 1936.
Per la legge italiana era ebreo chi discendeva da due genitori ebrei. Nel caso uno solo dei genitori fosse stato ebreo, tale persona era da considerarsi ugualmente ebrea se:
- fosse nata da genitori di cui uno solo di razza ebraica e l’altro di nazionalità straniera;
- fosse nata da madre di razza ebraica e da padre ignoto;
- avesse compiuto una scelta in favore dell’ ebraismo, iscrivendosi ad una comunità o facendo pratica di religione ebraica, e, in ogni caso chi non avesse ricevuto il battesimo prima del 1 o ottobre 1938.
La discrepanza originaria creò una situazione di caos esecutivo: chi infatti si sentiva al sicuro secondo la legge italiana, non lo era secondo la legge tedesca, e viceversa.
Il 1944, il capo della polizia Cerruti constatava in una sua lettera a Buffarini Guidi:
… Sta di fatto però che salvo eccezioni; da parte delle autorità tedesche viene proceduto al fermo e all’invio in campi di concentramento in Germania o in campi siti in Italia ma esclusivamente sotto il controllo delle autorità militari germaniche di tutti gli ebrei; compresi gli ammalati gravi ed i vecchi oltre i settant’anni, nonché gli appartenenti a famiglie miste.
I tedeschi infatti avevano tenuto fede al principio del non arresto per i casi c) e d) soltanto fino alla metà di febbraio del 1944 (tanto che gli arrestati per errore erano stati sistematicamente rilasciati).
Da metà febbraio, però, dopo la destinazione di Fossoli a campo di transito, prevalse la prassi di trattenere “i misti” in internamento senza deportarli. Il 2 agosto del 1944, al contrario, per iniziativa personale del capo dell’ufficio antiebraico della Gestapo di Verona, anch’essi vennero deportati verso i KZ del Reich con l’ultimo convoglio da Fossoli.
Ma anche sull’autentica volontà da parte italiana di preservare «i misti» dagli arresti c’è da sollevare qualche dubbio. Già il 29 dicembre 1943 infatti Buffarini Guidi avvisava i prefetti che «queste ultime disposizioni sono di carattere esecutivo et tendono a stabilire una gradualità nell’invio ai campi di concentramento degli ebrei, attesa la necessità di approntare gli alloggiamenti secondo ogni norma igienica e funzionale».
Indicava chiaramente come le esenzioni contenute nell’ordinanza del 10 dicembre precedente fossero di carattere strumentale e provvisorio.
Le retate italiane del dicembre 1943-gennaio 1944 e la deportazione di gennaio
Una delle applicazioni più gravi dell’ordine di polizia del 30 novembre fu il rastrellamento avvenuto a Venezia il 5-6 dicembre 1943 che portò all’arresto in una sola notte di 150 ebrei: venne coordinato, condotto e portato a termine interamente da autorità italiane.
Nel mese di dicembre, dunque, le questure si erano messe in moto per rintracciare gli ebrei (ormai passati per lo più alla clandestinità), arrestarli e rinchiuderli in campi di concentramento provinciali che ebbero invece vita brevissima (anche perché i tedeschi vi attinsero largamente per formare il convoglio di deportazione del 30 gennaio 1944 in partenza da Milano).
Ecco l’elenco dei luoghi dove si ha notizia che campi di concentramento provinciali fossero in funzione:
- per la Provincia di Alessandria, in località San Martino di Rossignano;
- per la Provincia di Ancona, presso la colonia marina Unes, a Senigallia sotto la sorveglianza di carabinieri e polizia. Gli ebrei internati erano 20-30, tutti trasferiti a Fossoli a metà maggio del 1944;
- per la Provincia di Aosta, all’interno della caserma Mottina ad Aosta. Gli ebrei furono portati a Fossoli con tre trasferimenti: il 20 gennaio, il 17 febbraio e il6 marzo 1944;
- per la Provincia di Asti, nel Palazzo del Seminario di Asti. Un primo trasporto fu formato in febbraio, altri deportati partirono per Fossoli in maggio con brevi soste nelle carceri di Torino e di Milano;
- per la Provincia di Cuneo, nella Caserma degli Alpini di Borgo San Dalmazzo. Il 9 dicembre la Questura aprì il campo nella stessa caserma che nel settembre del 1943 aveva visto concentrati gli ebrei fuggiti dalla Francia. Il campo non ospitò mai più di una trentina di persone. Il gruppo comprendeva anche tutti gli ebrei di Saluzzo;
- per la Provincia di Ferrara, nei locali del Tempio Israelitico di rito italiano. Da là avvennero almeno tre trasferimenti di prigionieri a Fossoli: il 12 febbraio, il 25 febbraio e il6 marzo 1944;
- per la Provincia di Firenze, a Villa La Selva di Bagno a Ripoli. I prigionieri vennero trasferiti a Milano il 26 gennaio 1944 per essere deportati il 30 gennaio;
- per la Provincia di Forlì, presso l’albergo Commercio di Corso Diaz;
- per la Provincia di Frosinone, fu utilizzato il campo di Servigliano situato in altra Provincia (Ascoli Piceno);
- per la Provincia di Genova, nell’ex campo per prigionieri di guerra, a Calvari di Chiavari. Rimase attivo dal 12 dicembre 1943 a121 gennaio 1944, quando i prigionieri furono portati a Milano, via Genova, con il convoglio del 30 gennaio 1944;
- per la Provincia di Grosseto, a Villa del Seminario a Roccatederighi, di proprietà della Curia Vescovile, con due trasferimenti a Fossoli: il 18 aprile e 1’11 giugno 1944;
- per la Provincia di Imperia, in una caserma a Vallecrosia;
- per la Provincia di Lucca, dentro la Villa Cardinali in località Bagni Caldi a Bagni di Lucca. I prigionieri giunsero a Milano il 25 gennaio 1944 con il convoglio del 30 gennaio successivo;
- per la Provincia di Macerata, a Urbisaglia e a Sforzacosta dove furono rinchiusi ebrei ex internati liberi della zona. In marzo i detenuti furono trasferiti a Fossoli;
- per la Provincia di Mantova, nei locali della Casa di Riposo Israelitica, da cui 44 prigionieri furono fatti partire direttamente per la deportazione il 5 aprile 1944;
- per la Provincia di Milano, all’interno di uno dei raggi dello stesso carcere di San Vittore che prese il nome di campo di concentramento per ebrei;
- per le Province di Padova e Rovigo a Villa Contarini-Venier nel comune di Vò Vecchio in una casa estiva delle suore elisabettiane dal 3 dicembre 1943. Fu liquidato il 17 luglio successivo e i prigionieri anziché a Fossoli, ormai smantellata, furono trasferiti a San Sabba;
- per la Provincia di Parma, nel Castello di Scipione a Salsomaggiore gli uomini, è nell’albergo Bagni, a Monticelli Terme, le donne e i bambini. Fu attivo dal 6 dicembre del 1943 al 9 marzo del 1944. I prigionieri furono evacuati a Fossoli. A Scipione furono internati i 26 ebrei arrestati a Parma;
- per la Provincia di Perugia, nell’edificio dell’Istituto Magistrale;
- per la Provincia di Piacenza, a Cortemaggiore;
- per la Provincia di Ravenna, all’interno delle carceri locali;
- per la Provincia di Reggio Emilia, prima a Casa Sinigaglia, poi a Villa Corinaldi e successivamente a Villa Levi di Coviolo;
- per la Provincia di Roma, in una sezione del carcere di Regina Coeli;
- per la Provincia di Savona, a Spotorno;
- per la Provincia di Sondrio, nel padiglione di proprietà del comune in via Nazario Sauro destinato agli Uffici Sanitari;
- per la Provincia di Teramo, nella caserma Mezzocapo; per la stessa Provincia, fu utilizzato anche Servigliano, situato in altra Provincia (Ascoli Piceno); .
- per la Provincia di Venezia, nella locale Casa di Riposo Israelitica, dalla prima settimana di dicembre fino al 31 dicembre 1943;
- per la Provincia di Vercelli, nella cascina Ara Vecchia di proprietà comunale e, successivamente, nella Casa di Riposo Vittorio Emanuele III;
- per la Provincia di Verona, in un edificio di via Pallone;
- per la Provincia di Vicenza, nella Colonia Umberto I di Piani di Tonezza, dal 20 dicembre del 1943. A fine gennaio del 1944, i suoi prigionieri furono portati a Milano per la partenza del convoglio del 30 gennaio;
- per la Provincia di Viterbo, nel locale carcere di S. Maria in Gradi.
Per le altre province si deve supporre che fossero le stesse carceri locali a fungere da campi di concentramento provinciali.
Come abbiamo visto, la gestione dei campi di concentramento spettava al Ministero dell’Interno che la delegava alle prefetture; queste amministravano i fondi accreditati dalla Ragioneria Centrale del Ministero dell’Interno su ordine dello stesso ministro. Alla direzione dei rispettivi campi venivano preposti dei funzionari di Pubblica Sicurezza oppure i podestà dei comuni di appartenenza o, ancora, degli incaricati ad hoc, proposti dalle prefetture al Ministero.
Mentre si andava preparando il convoglio per Auschwitz che avrebbe dovuto partire il 30 gennaio 1944 da San Vittore e dal carcere di Verona, i comandi distaccati di numerose città dell’Italia settentrionale pretesero che venissero loro consegnati gli ebrei detenuti nei campi di concentramento provinciali, perché non era stata ancora raggiunta la prevista cifra di 600 persone.
Quando i capi delle province chiesero istruzioni su come comportarsi, il Ministero dell’Interno ritenne giunto il momento di stabilire alcuni criteri fondamentali. Tamburini interpellò Mussolini, che a sua volta si consultò con Buffarini Guidi. Il 21 gennaio quest’ultimo rese noto che il governo, pur insistendo perché gli ebrei venissero internati nei campi di concentramento provinciali, si riservava “di interessare le autorità centrali germaniche perché in conformità del criterio enunciato, siano date disposizioni adatte perché gli ebrei permangano nei campi italiani.” Questa decisione fu trasmessa poco dopo ai capi delle province, cui venne ordinato al tempo stesso di “prendere accordi con Autorità locali germaniche, alle quali vengano spiegate le disposizioni impartite per ordine del Duce.”
Particolarmente istruttivi appaiono gli eventi a Vicenza, dove il capo della provincia decise di inviare il suo capo di gabinetto a Verona per trattare addirittura con Wolff, il quale finse di essere all’oscuro dell’esistenza di un ordine del genere. Nel corso di quello stesso pomeriggio, l’ufficiale di collegamento per il Veneto, il tenente colonnello della polizia dell’ordine Sewert, consegnò al capo della provincia l’ordine di Bosshammer, e Neos Dinale dovette rassegnarsi a consegnare gli ebrei ai tedeschi.