Il viaggio verso Auschwitz
Diversi ebrei internati nel Veneto furono deportati con gli stessi treni su cui furono caricati Liliana Segre e Primo Levi. Leggere le loro parole significa avvicinarsi, seppur idealmente, ai pensieri e ai sentimenti di tutti gli ebrei presenti su quei convogli.
30 gennaio 1944
Alla fine di gennaio un implacabile appello scandì anche i nostri nomi. Caricati su un camion, attraversammo Milano e fummo portati alla Stazione Centrale, dove nel sotterraneo era pronto per noi un treno merci. Fummo fatti salire a calci e pugni e piombati nei vagoni.
31 gennaio 1944
All’alba il treno si fermò e con sgomento vedemmo scendere i ferrovieri italiani e salire i sostituti, forse austriaci, forse tedeschi. Dai vagoni piombati saliva un coro di urla, di richiami, di implorazioni: nessuno ascoltava. Il treno ripartì.
1° febbraio 1944
Soffrivamo per la sete e il freddo: a tutte le fermate chiedevamo acqua a gran voce, o almeno un pugno di neve, ma raramente fummo uditi; i soldati della scorta allontanavano chi tentava di avvicinarsi al convoglio. Due giovani madri, coi figli ancora al seno, gemevano notte e giorno implorando acqua. Meno tormentose erano per tutti la fame, la fatica e l’insonnia, rese meno penose dalla tensione dei nervi: ma le notti erano incubi senza fine
2 febbraio 1944
La seconda parte del viaggio fu quella della preghiera: i più fortunati pregavano, e gli uomini ebrei avvolti nello scialle della preghiera che avevano conservato, si riunivano più di una volta al giorno nel centro del vagone e salmodiavano dondolandosi come fanno i religiosi ebrei, lodando Dio perfino in quella situazione, e lo facevano anche per noi che non sapevamo pregare.
3 febbraio 1944
Le ore passavano, così le notti e i giorni, in un’abulia totale: era difficile calcolare il tempo. Pochissimi avevano ancora un orologio e anche quei pochi privilegiati non lo guardavano più. Ogni tanto vedevo qualcuno alzarsi a fatica e cercare di capire dove fossimo, guardando dalle grate, schermate con stracci per riparare dal gelo quel carico umano. Si vedeva un paesaggio immerso nella neve, si vedevano casette civettuole, camini fumanti, campanili …
4 febbraio 1944
Prima che cominciasse la Foresta Nera, il treno si fermò e qualcuno poté scendere tra le SS armate fino ai denti, per prendere un po’ d’acqua e vuotare il secchio immondo. Anch’io e il
mio Papà scendemmo e vedemmo per la prima volta, scritto col gesso sul vagone: “Auschwitz bei Katowice”.
5 febbraio 1944
Fu silenzio nel vagone in quegli ultimi giorni. Nessuno più piangeva, né si lamentava. Ognuno taceva con la dignità e la consapevolezza delle ultime cose. Eravamo alla vigilia della morte per la maggior parte di noi. Non c’era più niente da dire. Ci stringevamo ai nostri cari e trasmettevamo il nostro amore come un ultimo saluto. Era il silenzio essenziale dei momenti decisivi della vita di ognuno.
6 febbraio 1944
All’alba del 6 febbraio il treno si fermò ad Auschwitz. Ricordo il rumore osceno e assordante degli assassini intorno a noi, i fischi, i latrati; ricordo i comandi e ricordo quando fui separata per sempre da mio papà.
(Rielaborazione a partire dalla testimonianza di Liliana Segre presente in Viaggio nella Memoria - Binario 21, catalogo della mostra a cura dell’Associazione Figli della Shoah, Proedi Editore, Milano 2006 e 2013, pp. 86-89)
21 febbraio 1944 – alla vigilia della partenza
E venne la notte, e fu una notte tale, che si conobbe che occhi umani non avrebbero dovuto assistervi e sopravvivere. Tutti sentirono questo: nessuno dei guardiani, né italiani né tedeschi, ebbe animo di venire a vedere che cosa fanno gli uomini quando sanno di dover morire.
Ognuno si congedò dalla vita nel modo che più gli si addiceva. Alcuni pregarono, altri bevvero oltre misura, altri si inebriarono di nefanda ultima passione. Ma le madri vegliarono a preparare con dolce cura il cibo per il viaggio, e lavarono i bambini, e fecero i bagagli, e all’alba i fili spinati erano pieni di biancheria infantile stesa al vento ad asciugare; e non dimenticarono le fasce, e i giocattoli, e i cuscini, e le cento piccole cose che esse ben sanno, e di cui i bambini hanno in ogni caso bisogno. Non fareste anche voi altrettanto? Se dovessero uccidervi domani col vostro bambino, voi non gli dareste oggi da mangiare?
23 febbraio 1944
Dalla feritoia, nomi noti e ignoti di città austriache, Salisburgo, Vienna; poi ceche, infine polacche. Alla sera del quarto giorno, il freddo si fece intenso: il treno percorreva interminabili pinete nere, salendo in modo percettibile. La neve era alta. Doveva essere una linea secondaria, le stazioni erano piccole e quasi deserte. Nessuno tentava più, durante le soste, di comunicare col mondo esterno: ci sentivamo ormai «dall’altra parte». Vi fu una lunga sosta in aperta campagna, poi la marcia riprese con estrema lentezza, e il convoglio si arrestò definitivamente, a notte alta, in mezzo a una pianura buia e silenziosa.
26 febbraio 1944
Accanto a me, serrata come me fra corpo e corpo, era stata per tutto il viaggio una donna. Ci conoscevamo da molti anni, e la sventura ci aveva colti insieme, ma poco sapevamo l’uno dell’altro. Ci dicemmo allora, nell’ora della decisione, cose che non si dicono fra i vivi. Ci salutammo, e fu breve; ciascuno salutò nell’altro la vita. Non avevamo più paura.
(Rielaborazione a partire dal Primo Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino 2014)