Il lavoro
La legislazione antisemita voluta e varata dal fascismo espulse gli ebrei dal sistema lavorativo nazionale e li confinò ai margini della società.
La vita da internati, sia nei campi di concentramento sia nei comuni, era di fatto votata all’inazione: gli ebrei stranieri, costretti ad abbandonare familiari, posti di lavoro, abitazioni e beni, si ritrovarono in provincia di Vicenza in uno stato di inattività forzata che impediva loro di mettere a frutto le innumerevoli competenze presenti (molte sono infatti le tipologie di lavoro svolto in patria: dal barbiere all’industriale, dall’ingegnere al meccanico a tecnici di vari settori) e di procurarsi i mezzi per migliorare le proprie condizioni economiche, spesso rese precarie dall’insufficienza del sussidio concesso dallo Stato.
A partire da questa situazione moltissimi degli internati esposero problemi e avanzarono richieste di lavoro alla Questura o ai podestà. Al di là del divieto specifico di lavorare, le stesse misure dell’internamento non favorivano la possibilità di essere assunti. Infatti, non ci si poteva allontanare dal comune di assegnazione né era ammessa la frequentazione tra ebrei ed ariani.
La circolare del 1942
A cambiare la situazione fu una circolare del Ministero dell’Interno del 5 luglio 1942. Fu così concesso agli internati, compreso gli ebrei, l’autorizzazione a lavorare “purché ciò non danneggi la mano d’opera locale e sempre che gli internati od i confinati stessi diano affidamento di non abusare dell’autorizzazione concessa in relazione alle limitazioni loro imposte dal regime del confino e dell’internamento”. Veniva specificato, inoltre, che “gli internati ebrei potranno naturalmente essere autorizzati ad occuparsi soltanto in lavori per i quali per le disposizioni vigenti non sussista divieto”.
La decisione era legata soprattutto allo stato di guerra e alla mancanza di lavoratori locali nei vari comuni. In molti casi, infatti, erano gli esercenti e gli industriali del vicentino a chiedere espressamente di poter assumere gli ebrei.
La Questura di Vicenza avvisò gli internati delle nuove disposizioni e la reazione non si fece attendere. Al periodo 1942-1943 risalgono tantissime lettere di ebrei che scrissero per poter avere i permessi per lavorare, accludendo certificati o dichiarazioni sulle proprie competenze.
In alcuni casi erano i comuni a chiedere di poter utilizzare il lavoro degli ebrei, come successe a Caltrano dove occorreva mano d’opera per la raccolta della ramaglia nei boschi.
Ci fu anche chi chiese delle dichiarazioni al Fascio di combattimento per dimostrare di serbare buona condotta e di essere un buon lavoratore.
David Levi, internato a Sossano, avanzò una richiesta per essere assunto presso la ditta Nodinelli di Vicenza come autista, ma in casi come questo rimaneva il divieto di uscire dal comune di internamento.
Risultava impossibile anche impartire lezioni di tedesco e francese alla popolazione locale, come chiese il signor Simcha, internato ad Arsiero. Il questore pregò di comunicare all’internato che “disposizioni vigenti in materia non consentono agli internati di dar lezioni del genere a persone di razza ariana”.
Qualcuno chiese il permesso per andare in altri comuni a cercare di persona il lavoro.
Particolare la richiesta dell’ingegnere meccanico Carlo Naussbaum, internato a Montecchio, che metteva “a disposizione dello Stato italiano le mie invenzioni che sono di una grande importanza per la navigazione aerea”.