Torquato Fraccon

Torquato Fraccon

(pagina a cura di Gregorio Farinello)

 

Torquato Fraccon nacque a Pontecchio di Rovigo il 29.12.1887, figlio di fu Luciano e fu Mariangela Bergamo. Lavorò come funzionario di Banca. Come si evince dalla scheda del Ricompart, Torquato fece parte della brigata Argiuna della divisione Vicenza, dal 1°.10.1943 all’08.05.1945 in qualità di partigiano combattente caduto. Fu ispettore provinciale con incarichi organizzativi con il grado di capitano dal 1°.10.1943 al 25.07.1944 e con il grado di maggiore dal 26.07.1944 al 1°.11.1944. Nel 1943 organizzò e portò a buon fine l’espatrio di parecchi gruppi di ebrei; mise in salvo prigionieri inglesi, fornendo loro vestiario e alimenti fino a un primo arresto, avvenuto il 07.01.1944 e durato fino al 10.03.1944 tra Padova e Vicenza.

Fu membro della C.L.N. e collaborò con il Comitato Regionale. Fu organizzatore e animatore di gruppi partigiani, raccoglitore di fondi, di vestiario e di generi alimentari, che regolarmente faceva pervenire alle formazioni della montagna. Fondò e diffuse il giornale clandestino, Il Momento. Diede asilo politico a perseguitati politici fino al 26.10.1944, giorno in cui fu arrestato dai nazifascisti. I luoghi in cui fu detenuto furono il carcere San Biagio, la caserma di San Michele, la caserma UPI di Bolzano. Infine, nel gennaio 1945, fu deportato e internato nel campo di concentramento di Mauthausen dove morì per gravi sofferenze l’08.05.1945.

 

In occasione della domanda di riconoscimento di Torquato Fraccon come partigiano, rivolta alla Commissione Regionale Triveneto, furono raccolte diverse attestazioni e testimonianze.

Una delle prima, datata 02.10.1945, è di Nino Bressan, comandante della divisione Vicenza che descrisse l’attività svolta dal partigiano Torquato (nome di battaglia “Alpino”):

Antifascista per temperamento e convinzione, Torquato Fraccon non volle mai venire a patti con il fascismo, né accettare la tessera.

Subito dopo l’8 Settembre fondò a Vicenza il primo Comitato di Liberazione Nazionale Provinciale, e ne ospitò le prime riunioni. Si prodigò nei primi giorni per far fuggire il maggior numero possibile di militari italiani del disciolto esercito destinato alla deportazione in Germania.

Lavorò indefessamente per organizzare quanti anelanti alla libertà ed alla indipendenza della Patria umiliata ed invasa auspicavano in migliore avvenire.

Le prime squadrette di patrioti ebbero subito da lui l’ordine di recuperare armi e munizioni dell’esercito italiano: nella sua mente c’era già il disegno della formazione di grandi unità di patrioti combattenti alle spalle del nemico. Con sagacia e passione diresse i primi nuclei di animosi assertori di diritti della coscienza, procurò fondi per aiutare i civili e i militari ricercati, dispersi, bisognosi, confortandoli con la parola, l’esempio, la speranza.

S’interessò vivamente degli ex prigionieri inglesi per cercare loro asilo, aiuti di ogni genere e per inviarli in Svizzera. Egli, credente onesto e profondo, raccolse e salvò numerosi Ebrei perseguitati a morte portandoli a sicura salvezza: furono oltre 500 che poterono, grazie al suo interessamento, alla sua organizzazione, riparare in terra ospitale.

Fin dalle prime riunioni del C.L.N. di Vicenza convinse gli altri componenti a dare grande importanza alle formazioni armate e fu elemento decisivo nella formazione del Primo Comando Militare Provinciale di Vicenza, che alla fine del 1943 comprendeva tutti i gruppi della provincia di Vicenza. Con grande intelligenza affido i vari incarichi, organizzò un servizio di propaganda, fu propagandista apertamente lui stesso per convincere i giovani ad arruolarsi nelle formazioni partigiane.

Convinto che specie l’azione militare avrebbe avuto grande importanza contro il nemico fece organizzare le prime squadre di sabotatori che già nel Novembre del 1943 agirono contro comando nazifascisti, suscitando enorme impressione sia tra i civili italiani sia tra i tedeschi.

Diresse personalmente un servizio di raccolta fondi per poter procurare quanto mancava; organizzò inoltre un completo servizio d’informazioni con diramazioni in quasi tutta la provincia di Vicenza. Fece distribuire continuamente giornali antifascisti, volantini di propaganda, lui stesso più di una volta girò per le vie di Vicenza lanciando manifestini incitanti in popolo alla rivolta contro il tedesco invasore.

Arrestato ai primi di gennaio 1944 per gravi sospetti soffrì lunghi mesi di Carcere a Padova e Venezia. Lusinghe e minacce non piegarono il suo spirito e la sua serena coscienza. Rilasciato con ingiunzione di non interessarsi di politica, parve che il carcere l’ingiunzione avessero moltiplicato l’energia e l’ardore e si rimise al lavoro, più tenace di prima quasi per guadagnare il tempo nobilmente perduto.

Ricominciò a peregrinare per la provincia di Vicenza, ed ispezionare reparti partigiani, a presiedere riunioni di carattere politico militare. Era sempre presente ove occorresse decidere qualche cosa d’importante; dato che tutti avevano fiducia in lui.

Convinse le Missioni alleate M.R.S. e Z.Z.Z. a far scegliere i campi di lancio anche in provincia di Vicenza, affinché fosse paracadutato in grande quantità materiale di sabotaggio per il Battaglione Guastatori “Vicenza” e per le altre formazioni partigiane. Partecipò personalmente a un lancio sui Berici. Diede massimo impulso all’organizzazione di reparti sabotatori perché potessero agire su vasta scala contro vie e mezzi di comunicazione del nemico.

Quanta attività in quest’uomo che, mite nell’aspetto, pacato e tranquillo era l’esempio della volontà e dell’amore alle cose giuste per le quali l’umanità vive: la fede, la libertà, l’amore alla Patria e alla Famiglia.

Continue le riunioni, le visite, i sapienti consigli e i suggerimenti: sempre vigile, sempre primo, sempre pagava di persona. La sua mente acuta s’interessava di tutto; d’azione politica, militare, di logistica, di propaganda, di ricerca dei mezzi finanziari. Ininterrotti furono i contatti col Regionale a Venezia Padova e Treviso; quanto lavoro, quanti rischi mortali per sé e per la famiglia!

Arrestato per la seconda volta nell’Ottobre 1944 con tutti i suoi cari, la casa devastata e spogliata, subì a Vicenza lunghi, umilianti interrogatori, inaudite sevizie, lusinghiere proposte. Non volle mai piegare: quale atroce tormento, quale tremenda alternativa per un padre che da una sua parola poteva far dipendere la scarcerazione e la vita dei figli e della consorte. Ma la coscienza della causa fu più grande del sangue.

Tutte le file del movimento provinciale regionale clandestino erano nelle sue mani, ma solo per lui. Torquato Fraccon sarebbe morto piuttosto di parlare e s’avviò alla ascesa del calvario d’amore e di morte.

Fu tradotto col figlio Franco nel Dicembre del 1944 a Bolzano e di lì a pochi giorni nel crudo inverno, a Mauthausen dove passò tutta la gamma delle sofferenze fisiche e morali, attanagliato dal pensiero della sorte della famiglia, dall’indicibile dolore di un padre che si vede accanto il figlio, nello stesso campo venire meno ogni giorno. Solo questa raffinata crudeltà dà la misura di quanto dovette soffrire Torquato Fraccon e dell’immensa sua fede che gli fece serrare i denti al grido di dolore e al desiderio di salvare almeno il figlio.

L’8 Maggio 1945 reclinò il capo col cuore consolato dalla visione delle prime truppe liberatrici apparse nel campo dell’orrore e della morte.

Magnifica figura di Italiano e di Padre e di incorrotto cittadino; Torquato Fraccon rimarrà insieme col figlio Franco fulgido esempio di fede patriottica e di intemerata onestà alla generazione presente e alla futura, finché sante aspirazioni a superiori ideali animeranno la vita degli uomini.

A sua volta, la moglie di Torquato, Isabella Ghirardato, dalla sua abitazione di via Pozzetto 3 a Vicenza, in una lettera diretta alla Commissione, descrisse le tappe della vita del marito.

Io sottoscritta Ghirardato Isabella ved. Fraccon fa domanda a codesta Commissione, perché sia riconosciuta la qualifica di partigiano caduto al proprio marito Torquato Fraccon.

Nato il 29.12.1887 a Pontecchio di Rovigo, fu avverso al partito fascista fin dall’inizio e pur perseguitato mai ebbe a risentirsi.

Nel 1943 organizzò e condusse a buon fine l’espatrio di ebrei e perseguitati politici; scoperto fu nel gennaio 1944, imprigionato nelle carceri giudiziarie di Padova, poi trasportato a Venezia e nel marzo liberato.

Tentò di mettersi al sicuro e si mise a far parte del C. L. N.; ne fu organizzatore ed animatore; collaborò col Com. Regionale.

Fu arrestato il 26 ottobre 1944 con tutta la famiglia dalle SS.

Nei primi due mesi di carcere fu bastonato e seviziato, poi nel dicembre deportato a Bolzano  indi al campo di Mauthausen, ove in seguito a sofferenze decedette 1° maggio  1945 come da dichiarazione del dott. Gianni Calore di Milano, che ne portò l’annuncio.

Il 28.01.1947 fu Ettore Gallo, in quel momento Commissario liquidatore del Comitato di Liberazione Nazionale Provinciale di Vicenza a stilare una relazione sull’attività del caduto Torquato Fraccon.

Un esponente del vecchio antifascismo popolare vicentino già fin dal Giugno 1940 aveva ripresi i contatti con i […] nuclei della resistenza alla dittatura, svolgendo azione propagandistica contro la guerra imperialistica.

Nel giugno-luglio 1943 partecipava ufficialmente ai movimenti dei partiti intesi ad indurre Badoglio ad una rapida soluzione internazionale che consentisse il conseguente passaggio dal governo militare a quello democratico.

Nel settembre 1943 era tra i Fondatori del C.L.N. Provinciale cospirativo in rappresentanza della D.C. Nella primavera del 1944, gravemente indiziato della sia effettiva attività politica, si sottraeva con la fuga […] all’arresto riparando in un’altra provincia. Ma sulla tarda estate dello stesso anno rientrava in Vicenza, benché sconsigliato, e riprendeva il suo posto al C.L.N. cospirativo. Preziosissima da questo momento fu la sua opera; partecipando ad ogni riunione del Collegio, che braccato da tutte le polizie nazifasciste era costretto a riunirsi nei luoghi più impensati, ci portava il suo entusiasmo fervido e la sua esperienza luminosa. Nelle discussioni, che orientava sempre in funzione della sua sicura fede nella vittoria delle Forze della Liberazione, portava un’intransigenza coraggiosa e misurata che valeva spesso a ripristinare nelle deliberazioni quel fiducioso equilibrio che la gravità del pericolo talvolta comprometteva.

Teneva personalmente contatto con le Forze Partigiane inquadrate dalla D.C. e ciò valeva a dargli la preziosa conoscenza di causa ogni qualvolta problemi militari venivano sul tappeto del C.L.N. politico.

Tratto in arresto ad opera della S.S. Germanica nell’Ottobre 1944, non fece alcuno mistero della Sua Fede politica che sostenne eroicamente a viso aperto di fronte alla ferocia degli aguzzini.

Consegnato alla tristemente famosa Banda Carità fu gettato nelle celle sotterranee di via Fratelli Albanese. Sottoposto ad efferate torture, a percosse e ad insulti, sopportò il sacrificio serenamente senza mai proferire parola che potesse compromettere i compagni di cospirazione e i piani del movimento.

In un’alba gelida di fine Dicembre 1944, iniziava, seminudo e sanguinante, il calvario orribile della deportazione donde mai più avrebbe fatto ritorno. Moriva, infatti, a Mauthausen, di stenti e di fame nella primavera della Liberazione.

In una memoria risalente al 1948, a seguito di una specifica richiesta della Commissione che si stava occupando della concessione della medaglia d’oro, Romeo Dalla Pozza, comandante della Argiuna e poi della divisione Vicenza, in quel momento dirigente del Partito Comunista Italiano (federazione di Venezia), raccontò come conobbe Fraccon e in che modo avvenne la fondazione di un organismo tecnico per l’ausilio ai salvataggi degli ebrei, ma si soffermò anche sull’incarceramento di entrambi.

La mia conoscenza con Torquato Fraccon datava da parecchi anni, dati i nostri rapporti alla Banca Cattolica del Veneto, ma fu dopo l’otto settembre 1943 e precisamente alla metà del mese di ottobre che noi allacciammo la comune conoscenza in un vincolo d’amicizia e di fiducia.

Dopo l’otto settembre la libertà degli uomini liberi voleva dire banditismo, e gli uomini liberi si organizzarono in un movimento cospirativo. Bisognava organizzare delle bande armate per creare il sabotaggio, bisognava trovare, recuperare, rubare delle armi, bisognava porre in salvo gli ebrei, bisognava aiutare a prigionieri alleati che, fuggiti dai campi di concentramento, erravano per le nostre campagne. A me fu dato l’incarico di creare un organismo tecnico dal quale uscissero delle carte d’identità false ma perfette e dei passaporti precisi. E creai questo organismo. Un giorno mi fu dato un ordine, di recarmi alla Banca Cattolica dal signor Fraccon e di mettermi ai suoi ordini. Vi andai. Fu facile intenderci, senza dubbi, data la nostra conoscenza. Egli mi consegnò venti fotografie. Erano fotografie di ebrei di Vicenza, di Padova, e di Venezia. Poche parole; le carte d’identità dovevano essere pronte per la sera stessa perché gli interessati dovevano partire. E così ogni giorno, venti, trenta e più. Furono più di 500 gli Ebrei che Fraccon aiutò in questo modo. Era preciso nel suo lavoro. Un giorno nel suo ufficio Agazzi parlò troppo. Appena questo uscì dal suo ufficio, mi disse: Non consegnare più niente a lui, verro io stesso quando non potrai venire tu. E così ogni sera, passava davanti a casa mia. Sorvegliava la strada e quando metà tendina era alzata si fermava, mi consegnava altre foto, ritirava le carte d’identità pronte e se ne andava sereno.

Se la tendina era abbassata, passava oltre per riprendere all’indomani. Abbinato a questo lavoro, quello dell’aiuto ai prigionieri. E anche questi furono parecchie centinaia che ebbero documenti, vestiti, denaro, Mi fermavo talvolta nel suo ufficio e chiedevo come sarebbe andata a finire. Accendeva una sigaretta e mi diceva: Bisognerebbe essere in tanti e siamo in pochi. Di questi pochi molti sono arrivisti o paurosi. Ma niente paura, caro Dalla Pozza, tutto dipende da noi, e noi abbiamo i nervi saldi.

Parlava sempre con serenità. Si esaltava nello sguardo quando ricordava il delirante entusiasmo del popolo italiano dopo il 25 luglio. Quello è stato un elemento essenziale, mi diceva; nel popolo c’è qualche cosa di grande, di sano. Sotto l’ombra di questo terrore c’è la rivolta. Il popolo vuole la sua libertà. Il popolo vuole il posto suo e sono sicuro che tutte le istituzioni buone verranno.

Avremo finalmente un fulcro famigliare e una morale cristiana.

Talvolta parlavamo dei principi politici. Mi diceva: Voi comunisti di oggi siete diversi da quello che pensavo. Non siete dei sovvertitori, ma avete un principio di sacrificio profondo. Sapete dare tutto per la lotta e siete i migliori.

Non so quello che farete domani, ma anche avversari di partito, voi sarete per me degli amici, dei cari amici; ad ogni modo, amico mio, domani saremo su diverse tribune, ma quello che importa è l’oggi.

Un giorno gli dissi: Resisteremo fino alla fine?

Egli mi guardò freddamente: Avresti forse paura?

– No, non paura per me stesso, ma talvolta penso alla mia famiglia, ai miei bambini. La nostra vita è incerta e se ci pescano noi non ci sarà via di scampo. Che ne sarà allora della famiglia?

Non rispose subito. Poi pacatamente disse:

– La famiglia? Vedi, noi viviamo l’avventura del paese. La libertà non sarà utopia. Il fascismo sarà distrutto e sarà il nuovo stato che dovrà pensare. Su questo non ci devono essere preoccupazioni, né dobbiamo prendercele. Qualcuno di noi ci rimetterà la scorza, ma nemmeno a questo dobbiamo pensare. Dobbiamo avere l’animo sereno e fare il nostro lavoro cole fosse l’usuale lavoro di ogni giorno e il buon Dio ci aiuterà.

Una sua costante preoccupazione era quella che tra noi vi erano dei paurosi.

– Se li prendono siamo fritti. Essi parleranno senz’altro.

Mi raccomandava che in caso non ci fosse mai nulla, di non scrivere mai nomi né luoghi. Egli salutava la forza della Gestapo e la metteva all’ordine del giorno sempre.

Poi venne la delazione Strada, fui ricercato ed arrestato e passarono mesi di incubo con la morte sospesa sul capo. Fuori continuava la lotta. Poi tremenda la notizia del suo arresto.

Fu portato in carcere con la famiglia. Lui al pianterreno con il figlio, il Marchese Giuseppe Roi al primo, il Rettore di Monte Berico al secondo. Grande sorveglianza. Nessuno di loro doveva Incontrarsi. Con tutti ebbi colloqui immediati, e fu possibile studiare un’unica linea di condotta. Molti documenti erano nascosti nel canile di casa Fraccon, ma non fu possibile recuperarli, e fattore più grave e più Importante per il Fraccon, era la ricevuta del farmacista (non ricordo il nome). Mia moglie fece il possibile per far concordare le deposi-zioni, ma la Gestapo comprese che il Fraccon era una pedina importante. Dopo qualche giorno il Marchese Roi passava alla cella 32, il Fraccon al 33, io al 34. Celle aperte durante il giorno. Possibilità di scambio d’idee.

Torquato non aveva perso la sua bella serenità e la sua pacatezza. Unica preoccupazione era quella del figlio Franco. Con la moglie e la figlia avevo frequenti contatti ogni volta che ciò si rendeva necessario. Talvolta alla magra mensa che si faceva in comune Torquato metteva da parte qualche cosa – Va a darlo a Franco – Era Inutile insistere, bisognava farlo. Molte volte, quasi sempre quello che ci passava il marchese Roi era destinato a Franco ed egli era felice. Era preoccupato per la branda, per le coperte, per l’aria, disposto a tutto sacrificare per il figlio.

Un giorno venne nella mia cella.

– Raccontami come ti è andata, mi disse. E dovetti spiegargli degli interrogatori, delle sevizie, delle mie carni lacerate, di tutte le accuse che mi facevano.

– Questa sarà la tua fortuna, perché ogni tribunale si contenderà la tua persona.

Ed ebbe ragione. Poi mi guardò in faccia, lungamente:

– Ero sicuro di te e sono contento che tu non abbia parlato.

E mi raccontò della delazione per l’espatrio degli ebrei, del suo precedente arresto, della sua odissea. Non una parola cattiva; non un sintomo di astio verso coloro che lo avevano fatto arrestare. Era l’uomo superiore, il padre comprensivo degli errori dei figli.

Ebbe parole di biasimo per gli scarsi aiuti che venivano per i partigiani e per i detenuti politici. Due volte, di notte, le SS venne in carcere per controllare dove era e come stava Fraccon. Erano dei mastini feroci pronti a sbranare un inerme.

Pesava l’incubo della repressione feroce.

– Hanno pochi mesi ancora, prima dell’inverno tutto sarà finito.

Così consolava i compagni di cella. Aveva fiducia nelle notizie di Radio Londra.

Una sera, alle 23, eravamo soli in biblioteca. Si parlava del più e del meno quando, bruscamente mi disse:

– Non so, ma ho l’impressione di andarmene presto. Per mia moglie e le figlie non ho preoccupazioni. La Superiora, il Cappellano del carcere, tu stesso servite per il loro morale e forse usciranno. Quello che mi preoccupa è Franco. Lo affido a te a Capponari, a tutti i nostri, ma voglio una promessa formale. Sono sulla rete, ma Franco forse se la caverà. Pensate al mangiare, ai libri, e a un profondo aiuto morale.

Era il padre che difendeva il suo virgulto. Nella sua voce vi era l’angoscia. Non era l’incerto domani, ricco forse di soli dolori, non era la sua sorte e il suo destino, ma era il bisogno di sentirsi dire che suo figlio era tutelato. Egli aveva scelto la sua strada e la percorreva anche se andava verso il calvario. Era un vivente eroe che insegnava a noi cosa vuol dire essere uomini di fede.

Poi vennero a prenderlo. Ero sulla porta a dargli il mio muto saluto. Mi passò vicino e a fior di labbra mi disse:

– Le donne! Franco! – Accennai col capo che avevo compreso.

Fu l’ultima volta che ci vedemmo. Lui usciva al sole che invidiavamo, ma lasciava a noi le sue donne, la moglie e le figlie, il suo virgulto, il suo Franco.

Per lui l’ignoto, per noi l’incubo. Dopo qualche giorno seppi del feroce interrogatorio, dei colpi di pistola ai piedi perché parlasse. Ma egli non parlò. Lenti giorni d’angoscia con contatto giornaliero col figlio che era passato alla caserma Sasso, poi la partenza verso la Germania e il sacrificio.

– Non odiare e non essere feroci domani.

Una frase lontana che mi fu detta da lui, una sera, quando attanagliato dalla febbre, maledivo gli uomini che ci avevano martoriato. E la ricordai e la ricordo.

Gli anni del terrore e del sangue sono passati. La tracotanza e la lotta fratricida è finita, tutto è passato, ma la sua figura è con noi, grande, grande come la vittoria per la quale è morto e la storia, e gli uomini devono tener conto degli eroi, dei nostri eroi.

E soprattutto non lo dimentichino i suoi compagni di lotta.

Il 24.02.1948 Angelo Fracasso, vicecomandante della divisone Monte Ortigara, scrivendo alla Commissione Triveneta per il Riconoscimento Partigiani, descrisse la personalità di Fraccon.

Solo ieri sera ritornando a casa dopo una breve assenza ho potuto avere visione della lettera espressa inviatami in data 20.2.48 per sentire il parere mio personale o della mia associazione sulla proposta di medaglia d’oro alla memoria di Torquato Fraccon.

Credo che tutti coloro che han conosciuto la bella figura morale di Torquato Fraccon non abbiano che da rallegrarsi. Per parte mia, pur avendo avuto nel periodo clandestino ben pochi incontri con Fraccon, ho potuto tuttavia constatare con quanta passione animava alla resistenza, con quanta serenità incitava al sacrificio per gli ideali, con quale calma affrontava le situazioni ed i pericoli, esempio sublime di modesto ma tenace combattente.

Dopo la sua cattura molto si parlò tra noi conoscenti del suo mirabile comportamento durante gli interrogatori. Era stato fra i primi arrestati, fra i primi torturati, fra i primi che diedero con modestia e serenità prova di alto spirito partigiano e di profondo senso dell’onore.

Anche in campo di concentramento da ciò che ne han narrato i pochissimi reduci, il suo modo di fare, così simpaticamente e modestamente coraggioso non venne mai meno e poté dare sino alla morte ai compagni il necessario incitamento per sopportare i duri sacrifici.

Credo che tutti coloro che l’han conosciuto, e sono moltissimi, trovino giusto che, accanto ai caduti in combattimento e degni della più alta ricompensa, sia posto anche Torquato Fraccon esempio di un eroismo meno appariscente, meno diffuso, ma altamente degno di essere indicato alla riconoscenza dei cittadini.

In un’altra relazione, su carta intestata del Corpo Volontari Libertà – Comando divisione Vicenza, Gino Massignan raccontò cosa fece Torquato prima di essere arrestato e deportato.

Entrai in relazione con T. Fraccon nel novembre del 1943 per la sistemazione di alcuni ebrei. Egli se ne interessò immediatamente ed organizzò il loro espatrio in Svizzera. La sera stabilita ci trovammo alla stazione di Vicenza dove impartì ai partenti le ultime istruzioni salutandoli affettuosamente. Ebbi subito l’impressione di un uomo che agiva con uno spirito di carità quale non avevo conosciuto prima di lui in altri. I nostri rapporti si intensificarono in seguito aumentando la stima e l’attaccamento che avevo sentito per Torquato fin dal primo incontro. Il suo umore era sempre ottimo e disposto ad un intelligente umorismo. Ricordo che alla metà di dicembre, durante il trasferimento di un gruppo di prigionieri inglesi da Brendola verso le montagne con meta la Svizzera mi diede un’altra prova del suo spirito amante della precisione e preoccupato sempre del buon esito delle iniziative. Mentre guidavo il gruppo che procedeva
in bicicletta a conveniente distanza ogni uomo dal successivo, tutti avvolti in mantelli e con vecchi cappellacci che dovevano dare l’idea di un gruppo di operai che tornavano dal lavoro, improvvisamente da un’auto che proveniva da Castelgomberto si sporse un braccio che si agitava in segno di saluto. Dapprima rimasi interdetto. Poi riconobbi la sua barba inconfondibile e lo vidi tutto allegro in volto ripetere il saluto ai prigionieri che lo guardarono un po’ preoccupati. Spiegai di chi si trattava e allora ne risero anch’essi e ne furono rinfrancati perché provarono l’impressione di un’organizzazione perfetta che si preoccupava anche di ispezionare il loro gruppo in trasferimento. In realtà sebbene attraverso varie peripezie, raggiunsero il confine tutti. Di tali sposta menti, sia in direzione Svizzera che verso il mare T., si interessò ripetutamente.
La sua attività era molto intensa e la sua abilità nel sistemare i perseguitati singolare. Aveva organizzato un sistema di alloggi sempre a disposizione e sempre occupati da gente in movimento verso lidi più ospitali. Tutto procedeva con accuratezza quale si richiedeva in quei tempi pericolosi. Se gli si può muovere un rimprovero è quello di essersi troppo esposto. Non mai di avere esposto gli altri. Da notare che la sua preoccupazione non si limitava allo spedire prigionieri o ebrei o perseguitati al sicuro, ma curava che questo avvenisse nelle migliori condizioni curando la minima spesa per essi e che non fossero vittime di profittatori. La sua collera fu tremenda quando seppe che una delle guide che accompagnavano al confine delle famiglie di ebrei cercò di approfittare chiedendo una somma più dello stabilito. Solo che si potesse dubitare della onestà e dell’assoluto disinteresse del movimento che a lui faceva capo, gli era intollerabile; era la cosa peggiore che gli si potesse fare.

Durante la sua permanenza in carcere a Padova e a Venezia si preoccupò dei compagni di cella come di se stesso e divise con loro le sue provviste. Con commozione Egli ricordava il rosario recitato in comune nella cella e le discussioni di indole religiosa con cui cercava di attirare alla fede giovani prigionieri che l’avevano perduta. E le scarpe del povero inglese prigioniero?

Era da poco uscito dal carcere quando andai a trovarlo a Venezia e già aveva ripreso la sua attività. Subito, ancora prima di recarsi a casa delle sorelle era corso all’abitazione di una povera donna, madre di un giovane carcerato per portarle notizie del figlio ed aiutarla. Una volta andai assieme a lui a trovarla e fui commosso dalla gentilezza e bontà che spirava dalle parole di T. La donna ne era consolata e lo pregò di ritornare ancora. “Quando el vien, sior, el me dà la forza de tirar avanti ancora. Che el Signor la benedisa”. Quante altre mamme avranno ripetuto questa benedizione? 

Egli aveva già pensato ai nuovi compiti cui dedicarsi e aspettava solo di poter ritornare a Vicenza per riprendere il suo posto.

Dopo il suo ritorno a Vicenza si dedicò appassionatamente al Partito Democratico di cui fin dall’inizio era stato animatore e rappresentante e nel Comitato della D. C. di Vicenza dominò sempre per autorità di giudizio, decisione e attività.

Si occupò fin dall’inizio del movimento partigiano senza discriminazione di partito, procurando viveri, denaro, vestiario, medicinali alle formazioni di montagna. Particolare cura rivolse ai gruppi che costituirono il Btg. Valdagno e la compagnia Giulia, di cui fu l’instancabile sostenitore. Le condizioni particolarmente difficili che ostacolavano il sorgere del Btg. Valdagno non lo scoraggiarono e lo sostenne in seno al Comitato stesso e contro le pretese di altre formazioni armate. Aiuti di ogni genere egli inviò al reparto e non gli bastò sorvegliarlo da lontano.  

All’interno della relazione, Gino Massignan, oltre a citare l’interesse di Torquato per gli ebrei che portava in salvo, citò anche l’ammirazione che provavano i comandanti nei suoi confronti. Inoltre, raccontò anche tutta l’esperienza che aveva vissuto, insieme ad altri partigiani, dall’arresto alla deportazione e la detenzione nel campo di concentramento di Mauthausen, le preoccupazioni di Torquato per la moglie e per le figlie, ma soprattutto per Franco, le esperienze atroci vissute all’interno del campo fino alla morte di Fraccon.

I comandanti dei reparti di cui s’interessava possono testimoniare quanti contatti ebbero con lui; come volesse sapere le minime cose. I partigiani tutti del Valdagno lo ricordano quando improvvisamente lo videro comparire in montagna camuffato da pacifico alpinista in cerca di burro, tranquillo e felice di trovarsi in mezzo ai suoi ragazzi. Consumò il rancio tra i giovani che lo guardavano con simpatia e rispetto, che ascoltarono le poche parole ma forti e serene che rivolse loro. Ma il suo atteggiamento e quella barba che gli procurò subito popolarità e il nome di “Barba”, esprimevano da soli una gioconda serenità una sicura bonomia; una fiducia così imperturbabile sulla giustizia e sull’esito della causa, che bastavano per infondere la stessa tranquilla fiducia in tutti.

Mi domandarono spesso i partigiani del Btg. perché “Barba” non veniva a stare con loro; li aveva conquistati. Lo rividero ancora e specialmente durante il trasferimento in pianura dovettero ringraziare il suo intervento e quello della sua famiglia se poterono sfamarsi. Stanchi e disgregati dopo il terribile rastrellamento del settembre che aveva disperso le formazioni della vallata dell’Agno e del Chiampo, i nostri ragazzi sfilarono di notte verso i Berico. Pattuglia dopo pattuglia. Torquato alla testa della sua famiglia si recava personalmente a portar loro i viveri nel bosco di Villabalzana. Egli si occupò della sistemazione in pianura del reparto, non si scoraggiò mai e sostenne tutti col suo esempio.

[…]

Novembre 1944

Trasferiti dalle carceri di S. Michele a S. Biagio trovammo Fraccon che ci offrì per primo del pane e della carne per sfamarci. La sua presenza ci dette forza e tranquillità. La fiducia nel futuro era così irremovibile in lui che anche quelli che lo avvicinavano erano portati a veder più roseo. Rimanemmo assieme poco tempo. Egli fu trasferito alla caserma Sasso e in Via Fratelli Albanese. Il mattino della partenza da Vicenza per Bolzano lo ritrovammo sul camion che doveva trasportarci. Era ancora buio e nel camion, ricoperto dalla tela egli era in uno dei posti più addossati alla cabina. Riconobbi la sua voce quando parlò chiedendo dove si trovava. Lo chiamai: Torquato! Rispose con accento di allegra sorpresa: Gino, sei tu? – Si – Subito con mal celata ansia: E Franco dov’è ( La stessa domanda che mi fece dopo alcuni mesi a Mauthausen, tre giorni prima di morire).

Rispondemmo in coro Peroni e io che c’era anche lui, ma sulla corriera che seguiva il nostro mezzo. Si informò della salute del figlio, della moglie e delle figlie. Evidentemente voleva provocare da noi la dichiarazione che la moglie e le figlie non facevano parte del convoglio, perché, avendo intravisto delle donne salire sulla corriera temeva soprattutto questo. Ma aveva paura di chiederlo. Lo rassicurammo a più riprese che erano rimaste tutte e tre a S. Biagio. Non ne fu completamente persuaso e solo al Pian delle Fugazze quando dovemmo scendere dal camion e dalla corriera che non ce la facevano più e proseguire un bel tratto assieme tutti a piedi, quando egli ebbe modo di vedere tutti i componenti la comitiva, si pacificò e il suo umore risalì al livello normale. Durante il tragitto a piedi suo figlio Franco riuscì a raggiungere il gruppo nostro. Si abbracciarono affettuosamente. Da quel momento fu il più allegro della compagnia e solo a Rovereto, per il cattivo trattamento usatoci nelle locali carceri, lo vedemmo sdegnato. L’indomani ripartiamo per Bolzano dove, appena entrati al campo di concentramento fummo rasati. Ci divertimmo alle spalle gli uni degli altri. Torquato poi senza barba e senza baffi era completamente cambiato e con Franco ce la godemmo un mondo. Poi ci ripartirono nei blocchi e Torquato, Franco, Prandina, Crico, Peroni ed altri entrarono nel blocco E, indicato come quello dei più sorvegliati.

Io venni assegnato al G. Vi vedemmo un 5 o 6 volte soltanto perché non era permesso avere relazioni con quelli del Blocco E. Il giorno di Natale, essendo stato scoperto un tentativo di evasione a mezzo di una galleria sotterranea che era quasi ultimata, lo passò in piedi all’aperto, senza assolutamente ricevere cibo.

Ci ritrovammo il dì della partenza per la Germania. Egli era del parere che non saremmo finiti troppo male: ce n’erano tanti di italiani in Germania a lavorare: Non si aspettava, come del resto nessuno di noi, quello che ci attendeva.

Durante il viaggio che durò in condizioni penosissime dal 7 od 8 gennaio al 12 e cioè quattro o cinque giorni, fummo in vagoni diversi. Il freddo era molto intenso e durante la notte specialmente terribile. L’interno del carro era completamente tappezzato da incrostazioni di ghiaccio che il calore delle 55 persone rinchiuse non bastava a far scomparire interamente neppure durante il giorno. Ci fu distribuito una prima volta un pezzo di pane e un po’ di pasta di acciughe e marmellata. Una seconda volta solo pasta di acciughe. Non potemmo bere per tutto il viaggio un sorso d’acqua e molti ne soffrirono assai.

Scesi alla stazione di Mauthausen il mattino del 12 gennaio ci incolonnarono in gruppi di 100 (eravamo circa 500) e mentre la neve cadeva abbondante, sdrucciolando sul terreno ghiacciato, fummo avviati verso il campo.

Tutti erano stanchi, affamati, intirizziti. C’erano dei congelati. Le S.S. di scorta ci incitavano continuamente ad affrettarci, qualcuno cominciò a picchiare.

Come Dio volle percorremmo la distanza di circa 3 km e mezzo, risalendo un colle coperto di boschi folti di abeti, attraverso diversi sbarramenti guardati da soldati ed arrivammo in vista del campo. L’alta muraglia di granito intercalata da torri massicce e grigie, le file di garritte sopraelevate, guarnite di mitragliatrici ed S.S. sempre in posizione di pronti per il fuoco, i reticolati muniti di isolatori di porcellana che ci fecero subito comprendere come dovessero essere percorsi dalla corrente ad alta tensione, il grande portone pesantissimo fra due torri più alte delle altre riunite al di sopra del portone da una specie di passerella chiusa da una vetrata, le schiere di sentinelle che si intravedevano in ogni angolo così che non si poteva sottrarsi alla loro vigilanza in nessun modo, il controllo rigidissimo, le conte e riconte del numero di quelli che entravano o uscivano, tutto ciò ci diede l’impressione che la faccenda era piuttosto seria. Per dei liberi lavoratori sarebbe stato un po’ troppo tutto quel complesso di precauzioni! A molti di noi invece venne spontaneamente fatto di pensare al verso di Dante: “Lasciate ogni speranza voi ch’entrate!”. Torquato tuttavia non mi parve eccessivamente turbato da tutto quel apparato e volle trovare il luogo meno funebre di quel che sembrava. Esaltò quello che poteva sembrare apprezzabile, la pulizia che non si poteva negare, l’ordine che regnava sovrano (ma a che prezzo lo vedemmo poi), la precisione, la rapidità con cui i gruppi di arrivati venivano smistati, divisi e ricomposti secondo nuovi criteri. Era egente, certo, quella lì, che doveva avere la sua buona pratica. Ma cominciammo presto ad aprire gli occhi e a guardarci bene dall’apprezzare quello che sembrava espressione di civiltà o di educazione. Sotto, si nascondevano ben altri fini. Intanto, con la scusa, dei pidocchi, cominciarono con lo spogliarci di tutto quello che avevamo, compresi gli anelli, orologi, catenine d’oro e d’argento. Ci lasciarono assolutamente nudi. Qualcuno fu così fortunato da poter nascondere qualche prezioso. Franco riuscì a salvare, nascondendola in bocca, la sua collanina d’oro, malgrado anche in bocca fosse stato ispezionato. Così Crico salvò l’anello matrimoniale. Così alleggeriti ci mandarono al bagno, una sala spaziosa, al seminterrato di un edificio situato subito a destra entrando nel campo. Qui una squadra di barbieri s’impadronì di noi e in breve fummo tutti pelati a zero, spalmati di una soluzione disinfettante, passati davanti ad un medico, che ne mandò subito alcuni all’ospedale, finalmente sottoposti al bagno. Questo dapprima caldissimo così che la pelle arrossata ci doleva, improvvisamente si mutò in una doccia gelida da togliere il respiro.

Quindi senza asciugarci, fuori di corsa all’aperto. Passando per la porta a ciascuno veniva gettato un paio di mutande e una camicia, naturalmente stracciate e ricche di macchie di dubbia natura. Ci vestimmo in mezzo alla neve che già alta una quarantina di centimetri, continuava a cedere, e aspettammo il seguito degli avvenimenti. Finalmente arrivò un polacco, che gridando e bestemmiando ci portò al blocco 25. Qui fummo rinchiusi per la quarantena. Questo periodo doveva essere il noviziato preparatorio prima dell’ammissione al campo come lavoratori. E questi lavoratori dovevano essere docili, privi di qualsiasi velleità, strumenti e numeri in mano agli aguzzini, dopo di aver perduto ogni senso di personalità e di dignità, così da lasciarsi umiliare e sfruttare fino all’ultima goccia di sangue, da vivi, e come concimi fertilizzanti da morti, dopoché il crematorio avesse compiuto la sua opera. Fu un periodo duro, ma non il più duro. Il vitto

consisteva in un litro scarso di zuppa di verdura, duecento grammi di pane, una fetta di un qualche cosa che somigliava al salame, e che una volta alla settimana era sostituito da una fettina di margarina o da un cucchiaio di ricotta. Disciplina di ferro, silenzio tutto il giorno, minacce e botte ogni momento, per le cause le più futili e impensate. Si dormiva come le bestie, come ci mettevano loro, tutti su un fianco, bene impacchettati senza la minima possibilità di fare un movimento. Chi era costretto ad alzarsi per bisogni urgenti non ritrovava più il suo posto, per camminare doveva passare sui compagni.

Quando al capoblocco qualche cosa non andava, e trovava sempre qualcosa che non gli andasse, ci cacciava all’aperto come una frotta di montoni, accelerando lo svuotamento dello stanzone con le nerbate sue e dei suoi accoliti. Ci lasciarono all’aperto qualche ora, procurando di scegliere quelle ore che fossero più gelide, quando cominciava un vento freddo a penetrare nelle ossa che pareva di congelare da un momento all’altro. Battere i piedi sulla neve non valeva. Le mutande e la camicia non bastavano certo a 15 gradi sotto zero a riscaldare. Quando eravamo irrigiditi per bene, così che c’era faticoso muovere le mani e le braccia, usciva, bene rimbacuccato dalla stanza riscaldata da una stufa a carbone, uno degli aguzzini, e cominciava a farci marciare, impartendo incomprensibili ordini in tedesco. Il disordine fatale che ne seguiva era ben punito. Così cominciarono a cadere i più deboli e i ricoveri all’ospedale divennero sempre più numerosi. Meno male, si pensava, che c’era l’ospedale. Illusi! Non sapevamo cosa significasse entrare in quel triste ambiente.

In questo periodo fui sempre vicino a Torquato e a Franco e mi resi conto della forza d’animo che aveva quell’uomo. Se un’osservazione faceva relativa ai maltrattamenti era per chiedere se a mio parere Franco l’avrebbe potuta sopportare questa vita! Nelle lunghe ore passate nella baracca parlavamo di tante cose. Ricordavamo il passato, soprattutto si facevano previsioni sull’avvenire, su quello che ci avrebbe aspettato. Torquato era sempre di una serenità eccezionale la stessa voce calma, la stessa sicurezza che gli conoscevo quando si discuteva a casa sua vicino alla radio. Non dubitava che tutto sarebbe finito bene. Era inevitabile, diceva, che qualcuno, come succede in tutte le lotte, non arrivasse fino in fondo. Ma la buona causa, quella, avrebbe trionfato senz’altro. Se un velo di tristezza appannava talvolta il suo sguardo era quando guardava Franco. Quali angosce nascondesse quell’animo di padre non si può dire. Egli pensava solo a Franco, lo voleva sempre vicino, gli chiedeva se avesse fame, ed era una gara di pietose menzogne tra di loro che volevano ciascuno togliersi di bocca qualcosa per l’altro. Con quale indifferenza T. porgeva a Franco una parte del suo pane dicendo che non aveva appetito. E lo giurerei che doveva sentirsi i crampi per la fame, e Franco a rifiutare. Non aveva fame neanche lui! Anzi voleva lui dare un pezzo di pane al padre. Finché Torquato diceva: “Dai, non fare lo stupido, mangia!’ E noi assistevamo muti e commossi a queste scene. Tutti gli volevamo bene. Era un amico e un consolatore. Ispirava forza e fiducia. Forse egli si era prefisso questo scopo: sostenere il morale della gente, poiché non si poteva in altro modo giovare, animare, mantenere vive le speranze. Questo equivaleva a salvare delle vite, perché si demoralizzava era perduto. Le virtù cristiane di T. ebbero modo di manifestarsi in pieno in quell’ambiente di dolore e di disperazione. La sua fede era illimitata e l’abbandono nelle mani della divina provvidenza completo. Questo egli ci esortava sempre di fare: pregare ed affidarsi a Dio. Pregava spesso e pregavamo assieme, piano, in un angolo. Questa unione che egli sentiva col divino lo sorreggeva mirabilmente, gli permetteva perfino di essere allegro. Perché neppure Mauthausen riuscì a fargli perdere l’umorismo. Se c’era qualche cosa che si prestava al ridicolo egli la rilevava, e dobbiamo alle sue argute facezie se pure in quelle giornate tutt’altro che liete ci facemmo più di una cordiale risata. Fra lui e Franco si accendevano talvolta delle schermaglie di un umorismo piacevolissimo che avevano per oggetto osservazioni sul reciproco modo di vestire, sui buchi e gli spaghi per rattoppare i malanni più urgenti. Erano straordinari. Accadde veramente più di una volta che nei momenti di malinconia, li andammo a cercare per esser rianimati, Torquato soffriva per il freddo, ma il suo fisico era più robusto di quanto sembrava e la sua volontà lo sosteneva. Quando, dopo la quarantena grazie al lavoro fatto nel reparto della disinfezione potei rubare dei paletot e dargliene uno, lo voleva cedere a tutti i costi a Franco e solo quando questi poté avere un giacchettone, si persuase a tenerlo.

Verso gli ultimi di gennaio, cessata la quarantena, fummo trasferiti al Blocco 18 dove restammo qualche giorno in attesa di essere definitivamente passati al blocco dei lavoratori. T. fu prelevato spesso con altri per lavori di fatica, spalar neve, portare sacchi ecc. e se la cavò sempre bene. Cominciarono allora le partenze per i campi di lavoro. Passammo finalmente ai così detti blocchi liberi e precisamente al 13. Erano giorni di terribile ansia, perché decidevano della vita. Certi trasporti volevano dire: morte sicura. Altri: morte probabile. Altri ancora probabilità di salvare la pelle. Tutto dipendeva da dove si andava e con che. Intanto quei giorni di attesa, verso la meta di febbraio, furono i peggiori vissuti fino allora. Cacciati fuori dal blocco al mattino sotto la neve o la pioggia, sempre in piedi, bagnati, affamati, sfiniti, prelevati ogni tanto da qualche criminale di capo e spediti a caricare massi di granito e se non addirittura a portarli per interminabili scale su dalla cava. Costretti a spalar neve con tutte le forze possibili, perché un segno di rallentamento portava una lividura o una ferita se non di peggio. Finalmente come cani affamati si correva ad inghiottire a lunghe sorsate la broda di rape calda e puzzolente, spesso senza sale completamente, tuffando il naso e le labbra dentro alla luridissima scodella dove un altro aveva mangiato prima di noi. Fino allora infatti non avevamo visto un cucchiaio se non alla tavola degli aguzzini. I vecchi del campo ce l’avevano. In seguito riuscimmo a possederne uno e fu una conquista notevole. Il timore di T. era quello di essere assegnato a un trasporto separato dal figlio e questo purtroppo avvenne. Tuttavia tanto fece e supplicò presso lo Schriber del blocco che questi, in fondo un bravo ragazzo, lo tolse dalla lista. In quei giorni io venni trasferito all’ospedale del campo. Partii salutato da tutti come se avessi vinto la Lotteria di Tripoli. Quando vennero all’ospedale, però si accorsero che lì non si stava proprio bene. Risalii al campo qualche giorno dopo per portare degli ammalati dall’infermeria del campo stesso, all’ospedale che era fuori dalle mura. Vidi Crico che vagava con una vecchia gavetta in mano in cerca di qualche cosa da rosicchiare. Mi disse che T. e Franco erano partiti in trasporto. Non mi seppe dire dove fossero andati e non lo seppi mai. Franco non lo vidi più. Secondo me è morto all’ospedale del campo circa i primi di maggio … 

Torquato lo ritrovai all’ospedale il 5 maggio. Era il giorno dell’arrivo degli Americani. La folla dei prigionieri ischeletriti, come una processione di spettri irruppe fuori dai portoni del campo incontro al carro americano che era sbucato dal bosco. Il delirio di gioia era indescrivibile. Approfittai per scendere all’ospedale, da dove una settimana prima ero stato mandato via, in cerca di Torquato che avevo saputo doveva essere lì. Era successo infatti che verso il 20 di aprile ero stato avvisato che i due Fraccon erano al campo. Quando fui trasferito dall’ospedale al campo li cercai, ma proprio in quei giorni essi erano stati ricoverati all’ospedale. Dunque, cominciai a cercare e lo trovai al blocco 3. Era steso sulla prima cuccetta, riservata ai più gravi, sopra una tela cerata, ricoperto da una logora camicia. Era molto dimagrito. pallido. Spiccavano sul volto due grandi occhi luccicanti. Dapprima stentai a riconoscerlo, poi avvicinatomi scavalcando un mucchio di cadaveri accatastati lì vicino, lo ravvisai e piangemmo abbracciati assieme. Le prime parole furono: dov’è Franco? Non lo sapevo, ma istintivamente risposi che era su al Lager e che stava abbastanza bene. ” Ti raccomando disse, prenditi cura di lui” Lo rassicurai. Gli parlai dell’arrivo degli Americani delle medicine che presto avrebbe potuto avere abbondantemente, del vitto adatto alla sua malattia che gli sarebbe stato dato. Mi ascoltava in silenzio e non manifestò alcuna emozione, era come assorto in pensieri profondi, non disse una parola che significasse speranza o lamento o previsione di una fine. Forse sentiva che la sua sorte era segnata. Si animò un poco quanso sopraggiunse il dottor Calore che lo conosceva per averlo incontrato al comitato regionale veneto. Si riconobbero entrambi. Raccomandai vivamente al mio amico Calore di prendersi cura di T. come se si trattasse di mio padre. Non c’era bisogno. In quel momento cominciarono a sgombrare l’ospedale dagli estranei. Dovetti andarmene. Cercai rapidamente se c’era Franco. Chiesi di lui ma nessuno l’aveva visto. Rientrato al Lager ebbi alcuni giorni dopo la notizia che Torquato era morto l’otto maggio. L’enterocolite e il flemmone che l’aveva preso alla gamba sinistra avevano avuto ragione della sua resistenza fisica, già stremata dai disagi e dalle sofferenze, Il suo corpo finì nelle fosse comuni.

Questo so di lui. Ma nel periodo che passò lontano da Mauthausen, nei campi di lavoro, non conosco nulla.

Nino Bressan, in un prospetto del 1°.11.1946 compilato per appoggiare la richiesta di riconoscimento della “medaglia d’oro al valore partigiano alla memoria” per Torquato, così motivò la proposta:

Mentre nell’Europa si accendeva la prima luce della libertà Torquato Fraccon consumava il supremo olocausto.

Irriducibile alla tirannide fu tra i primi eroici soldati della libertà. Presidente del primo C.L.N. della Provincia di Vicenza, fu ardente cospiratore partigiano. Salvò dalla deportazione ad opera di feroci Nazifascisti molti soldati del nostro esercito disciolto, riparò all’Estero moltissimi ebrei, ricuperò molte armi e nella Provincia di Vicenza organizzò bande armate, alle quali senza discriminazione di partiti, procurò viveri, denaro, vestiario, medicinali.

Imprigionato una prima volta, riprese poi con maggiore intrepidezza l’azione cospirativa militare, allargandola da Vicenza, Padova, Venezia. Convinse le Missioni Alleate per la scelta dei campi di lancio, partecipò personalmente alla raccolta del materiale paracadutato sui Berici, diede impulso ai reparti sabotatori e al famoso battaglione guastatori Vicenza.

Prima che la Patria fosse libera dai Nazifascisti fu catturato una seconda volta durante un’azione di fuoco. Incarcerato con la famiglia, seviziato e vilipeso; non tradì la causa e non rivelò un nome. Nel Campo di annientamento di Mauthausen fu sopraffatto dalla fame e dalle sevizie insieme col proprio figlio. Esempio luminoso di amore alla libertà e alla Patria cui ha sacrificato se stesso e quanto aveva di più caro.

Il 24.02.1948 la “Commissione Regionale Triveneta per il riconoscimento della qualifica ed esame proposte ricompensa al V.M. ai partigiani”, guidata dal presidente Attilio Gombia, si riunì a Padova per esaminare l’incartamento relativo a Torquato Fraccon. I 10 commissari presenti si espressero a favore della proposta compilata da Nino Bressan (comandante della divisione Vicenza). Effettuati gli opportuni accertamenti, la Commissione deliberò all’unanimità la concessione della Croce di Cavaliere dell’Ordine militare d’Italia alla memoria.

L’archivio Arolsen conserva la carta personale del prigioniero 115501. Oltre ai dati anagrafici (compreso l’indirizzo di residenza: via Commenda 279), il riferimento alla religione cattolica, alla moglie Isabella Ghirardato e ai 3 figli, la Häftlings-Personal-Karte, sono presenti i dati sull’ingresso nel KL di Mauthausen avvenuto l’11 gennaio 1945 a seguito dell’intervento della Sipo di Verona.

Sulla destra è presente la descrizione dello Schutzhaft Fraccon: Altezza: 171 cm – Corporatura: media – Viso: allungato – Occhi: castani – Naso: grande – Bocca: normale – Orecchie:  normali – Denti: 1 mancante – Capelli: grigi – Lingua: italiana – Segni particolari: nessuno.

Sul retro sono riportate le fasi della permanenza di torquato nel sistema concentrazionario di Mauthausen:

  • dall’11.01.1945 al 13.02.1945 fu posto in quarantena
  • dal 13.02.1945 al 24.02.1945 fu utilizzato come lavoratore forzato ad Eisenerz, sottocampo di Mauthausen operativo dal 15 giugno 1943 al 14 marzo 1945, dove la manodopera veniva assegnata alla locale industria del ferro
  • dal 24.02.1945 all’08.04.1945 passò a Peggau, altro sottocampo di Mauthausen, aperto dal 17 agosto 1944 al 2 maggio 1945, dove centinaia di internati, molti dei quali provenienti da Eisenerz, lavorarono nella costruzione di gallerie e poi, nelle stesse gallerie, a componenti di aeroplani.

Il campo di Peggau, guidato dall’SS-Untersturmführer Fritz Miroff, nacque a seguito dell’impossibilità di continuare alla lavorazione di aerei a Graz-Thondorf da parte della Steyr-Daimler-Puch. Ciascun tunnel era alto circa 7 metri, largo 6 e lungo 200.

C’erano cunicoli di collegamento tra ciascuna delle sei gallerie principali. Il primo trasporto di 400 prigionieri raggiunse Peggau il 17 agosto 1944. Un altro trasporto del 3 settembre arrivarono 200 prigionieri di Mauthausen. Il 20 ottobre 1944 altri 100 prigionieri furono trasferiti da Leibnitz. Altri 50 prigionieri furono inviati al sottocampo di Peggau il 5 dicembre 1944, 30 il 26 dicembre 1944 e 50 il 6 gennaio 1945, tutti provenienti dal sottocampo di Leibnitz. A seguito dello scioglimento del campo di Eisenerz e l’evacuazione dei suoi 220 prigionieri, il numero dei prigionieri di Peggau aumentò ancora. Ai primi di marzo il campo raggiunse il numero massimo di prigionieri: 888.

La maggior parte dei prigionieri di Peggau proveniva dall’Unione Sovietica e dalla Polonia, ma c’erano jugoslavi, italiani e francesi. Dormivano in 10
caserme a circa 1 o 2 chilometri dalle gallerie dove lavoravano.

Tra la data di fondazione del campo di Peggau e la metà di marzo del 1945 morirono almeno 63 prigionieri. Inizialmente, i corpi venivano bruciati nel crematorio di Graz. Altri 117 prigionieri, per lo più malati o fisicamente deboli, furono rimandati al campo principale. Verso la fine, quando il numero dei morti aumentò vertiginosamente, fu scavata una fossa comune vicino al campo. Dopo la guerra, furono riesumati 138 corpi. Si può quindi presumere che morirono tra i 150 e i 200 prigionieri. 

Peggau fu evacuato il 2 aprile 1945. Prima che cominciasse l’evacuazione, 15 prigionieri che non potevano più camminare furono uccisi nei tunnel. I restanti 850 prigionieri furono guidati a piedi fino a Bruck an der Mur. Lì furono caricati su carri bestiame e trasportati a Mauthausen dove arrivarono il 7 aprile. 21 prigionieri morirono durante l’evacuazione e 9 furono ufficialmente registrati come evasi.

Questo spiega il motivo per cui Torquato Fraccon risulta nuovamente nel campo principale l’8 aprile 1945. Un mese dopo morì. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Fonti

  • ACS, fondo Ricompart, fascicolo Fraccon Torquato
  • www.partigianiditalia.cultura.gov.it (scheda Ricompart)
  • Arolsen Archives
  • The United States Holocaust Memorial Museum. ENCYCLOPEDIA OF CAMPS AND GHETTOS, 1933–1945, Voce Peggau, pp. 940-941 (è presente anche la foto)

Bibliografia

  • Antonio BaroliniTorquato e Franco Fraccon, Neri Pozza, Vicenza 1967.
  • Graziella Fraccon Farina, Torquato Fraccon e il figlio Franco, Edizioni Cinque Lune, 1968 (anche in La Resistenza vicentina e padovana, Edizioni Cinque Lune, 1968, pp. 161-241).
  • Neri Pozza, Ritratti vicentini e altro, Neri Pozza Edizioni, Vicenza 1987, pp.63-68.
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