Introduzione di Paolo Tagini
La storia non ha tempo per i sentimenti, ancor meno per il tradimento e il dolore e men che meno per la sorda impotenza, l’impossibilità di capire ciò che sta avvenendo. Un giorno sei un essere umano, e il giorno dopo, malgrado il contrassegno o forse proprio grazie a esso, sei un uomo invisibile. No, questa non è storia, ma una catastrofe di dimensioni cosmiche, in cui ogni individuo rappresenta un cosmo a parte.
David Albahari
Polvere sulla memoria
Seicento persone, seicento esistenze, seicento destini ci riportano alla storia degli ebrei stranieri internati nella provincia di Vicenza durante l’ultimo conflitto mondiale. Una storia che per lungo tempo, forse troppo, è rimasta pressoché sconosciuta ai più e quasi dimenticata, ma che ora a distanza di oltre sessant’anni merita di essere affrontata almeno in quelle che sono state le sue principali peculiarità. La scarsa attenzione al fenomeno qui studiato è riconducibile a quella che è stata una tendenza generale della storiografia italiana attenta a tralasciare molti argomenti “compromettenti” del secolo scorso. Riportare alla luce le leggi razziali approvate dal governo fascista nel 1938, l’indipendenza dell’iniziativa antisemita prima, e il sostanziale accordo con la prassi persecutoria nazista poi, non può far altro che ricondurre alle vere responsabilità storiche di un popolo, fino ad oggi così tanto cresciuto nel mito «degli italiani brava gente». D’altra parte studi recenti hanno evidenziato come l’oblio nella memoria collettiva delle diverse tipologie di persecuzione antiebraiche sia da ricondursi alla «supremazia di significato» scaturita dall’immagine di Auschwitz, così che le forme assunte dalla persecuzione e dalla deportazione sono state spesso riassunte, catalizzate e ridotte all’ interno del solo universo concentrazionario nazista. L’analisi dell’internamento degli ebrei nella provincia di Vicenza (ma, come si vedrà, non solo di essi) non può prescindere anch’essa dalle precedenti considerazioni. Benché già Renzo De Felice avesse sottolineato nel suo libro Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo (Einaudi, Torino 1961, con nuova edizione ampliata nel 1993) l’eccezionale sviluppo che il fenomeno ebbe nel territorio berico [«nel gennaio-marzo 1943 – scrisse De Felice – nel solo Vicentino vi erano ventisette località di confino e di internamento con quasi quattrocento confinati e internati in gran parte iugoslavi e ungheresi…» (p. 372, nuova ed.)] e nonostante i costanti richiami ai casi provinciali da parte di opere di carattere generale, le informazioni ricavabili da pubblicazioni o da articoli di quotidiani locali sugli ebrei internati lasciavano ancora incompiuta una chiarificazione complessiva del problema. Distante dalla pretesa di poter “dire tutto” sull’ argomento in oggetto, avvalorata soprattutto dalla consultazione di molti documenti inediti conservati in alcuni archivi comunali, e soprattutto all’Archivio Centrale dello Stato in Roma e all’Archivio di Stato di Vicenza, questa ricerca, allontanandosi da un semplice intento localista, nasce con la speranza di legare lo sviluppo della questione ebraica nel Vicentino a un evento globale, la Shoah, che così tanto ha segnato tutta l’umanità contemporanea. Per una prova della correlazione intercorsa tra la storia provinciale e superiori accadimenti storici, nel caso nostro basti pensare al comportamento dell’ allora capo della Provincia di Vicenza, Neos Dinale, quando nel gennaio 1944 spinse la sua azione, in ottemperanza a generali considerazioni di autorità politica, fino ai massimi livelli del governo di occupazione nazista in Italia (l’emissario di Dinale, come si vedrà, fu inviato presso il comando tedesco di Verona e interpellò personalmente il generale plenipotenziario Karl Wolff) per trattare della sorte degli ebrei detenuti nel campo di concentramento provinciale di Tonezza del Cimone, poiché, al di là della volontà tedesca di deportarli, sua (cioè fascista) era la responsabilità degli ebrei reclusi nel campo provinciale e, di conseguenza, dovevano essere esclusivamente sue (cioè fasciste) le decisioni riguardanti il loro destino.
Oltre all’esigenza di contestualizzare gli eventi è stato fortemente inseguito l’intento di soffermare l’indagine storica sulle particolari “reazioni” degli individui verso il sistema dell’internamento una volta che, loro malgrado, fossero entrati a farne parte. La storia di ognuno degli internati infatti assume per sé stessa un valore e significato esclusivo: per questo si è deciso di dedicare alla fine del libro una scheda per ciascuno degli oltre seicento internati con i dati anagrafici e i principali fatti nei quali fu coinvolto. Accomunati dal fatto d’essere stati tutti colpiti da un provvedimento repressivo antisemita, gli ebrei furono coinvolti in esperienze dai risvolti differenti. Sebbene il più delle volte fosse il caso a decidere, ognuno cercò di sopravvivere alla persecuzione e di salvarsi dall’ annientamento a suo modo.
Gli internati provenivano da diverse parti dell’Europa, parlavano disparate lingue, appartenevano a vari ceti sociali. Dalla Germania, dalla Polonia, dalla Croazia ecc. seguendo particolari itinerari centinaia di individui, costretti ad abbandonare il proprio domicilio, spogliati di qualsiasi diritto e avere, affrontarono in terra vicentina, con più o meno coscienza, probabilmente i momenti più cruciali della loro vita. I più sfortunati – ed erano la maggioranza – giungevano in un paese straniero separati dagli affetti più cari, portando con sé i pochi beni utili per far fronte a un futuro quanto mai incerto e pericoloso. A tal proposito, queste ultime” cose” assumono speciali significati poiché al di là del loro puro utilizzo materiale diventano, nel presente, gli ultimi testimoni di tutta una vita che non c’è più e che non potrà mai più tornare come era. Si sono volute seguire da vicino, quindi, le vicissitudini delle singole persone o famiglie in tutte la fasi dell’internamento, dal loro arrivo nei comuni della provincia (1941), passando attraverso lo spartiacque rappresentato dall’8 settembre 1943 e l’occupazione tedesca dell’Italia, e infine per giungere, a conflitto concluso, a identificare (almeno in qualche caso) l’ultimo loro destino.
Un’ annotazione conclusiva sulle fonti. Seppur si sia utilizzato un numero ridotto di testimonianze orali, è stato possibile constatare come, a distanza di sessant’anni dai fatti accaduti, sia rimasto relativamente vivo in tutti gli intervistati il ricordo di chi fu costretto al confino libero nel loro paese. Al contrario della memoria collettiva, la quale ha escluso da sé il ricordo degli internati, la memoria individuale degli intervistati si è conservata. Molti ricordi degli intervistati – escluso forse don Michele Carlotto unico che negli ultimi anni ha raccontato in diverse occasioni la sua storia – appaiono, oggi, in tutta la loro vivezza. Essi, non parlandone per così tanto tempo, sono sfuggiti dalla “tentazione” di poterla rielaborare, così che, ascoltandoli, la sensazione è stata quella di rivivere dei fatti appena accaduti. L’espressione «varda, li go davanti gli oci…» riferita agli internati, sentita in una conversazione non è, perciò, per nulla casuale. Semplicemente l’immagine degli internati è scomparsa dalla memoria collettiva mentre è rimasta, “sopita”, in quella delle persone. Sarebbe però riduttivo pensare che la mancanza di ricordo sia semplicemente una conseguenza di una mancata interrogazione. Alla specifica domanda sul perché a lungo non si fosse più parlato di queste vicende, don Michele Carlotto, che, come si avrà modo di vedere, sarà splendido protagonista della salvezza degli ebrei internati a Valli del Pasubio, rispose che «finita la guerra era finito tutto». La secca risposta del sacerdote può spiegare per quale motivo non si sia sviluppata nelle varie comunità locali una propria memoria degli internati. L’evento guerra aveva così spossato e traumatizzato gli animi degli italiani che questi, nel periodo postbellico, non avevano sentito affatto il bisogno di ricordare qualcosa di così spiacevole come l’internamento fascista degli ebrei e di cui, per certi versi, avrebbero potuto considerarsi anche colpevoli. Non c’era il tempo né la necessità di ripensare, e tanto meno di raccontare, le vicende delle persone internate nel Vicentino. Scrisse Primo Levi nel tentativo di spiegare le difficoltà incontrate nel pubblicare quella che diverrà la sua opera più celebre, Se questo è un uomo: «a quel tempo la gente aveva altro da fare. Aveva da costruire case, aveva da trovare un lavoro. C’era ancora il razionamento; le città erano piene di rovine; c’erano ancora gli alleati che occupavano l’Italia. La gente non aveva voglia di tutto questo, aveva voglia di altro, di ballare per esempio, di fare feste, di mettere al mondo dei figli. Un libro come questo mio e come molti altri che sono nati dopo era quasi uno sgarbo, una festa guastata» (il brano di Primo Levi è citato in Guri Schwarz, Ritrovare se stessi. Gli ebrei nell’Italia postfascista, Laterza, Roma-Bari 2004, p. 116).
La polvere accumulata sulla memoria degli ebrei internati nella provincia di Vicenza è da ritenersi, dunque, un’ulteriore conseguenza di quanto esplicitato dall’ autore di Se questo è un uomo?
Questo lavoro, nato come tesi di laurea, porta sulle spalle tanti debiti di gratitudine. Sarebbe troppo lungo citare tutte le persone che hanno contribuito alla realizzazione dell’ opera.
Non voglio d’altra parte mancare di esprimere il più sincero ringraziamento a Mario Isnenghi, mio relatore di tesi, che negli anni del suo seminario laureandi ha seguito e stimolato senza risparmio di critica tutto il percorso di ricerca.
Un grazie particolare è rivolto ad ognuno dei responsabili, nonché al personale, degli archivi consultati.
Sento di esprimere la mia più forte gratitudine ad Antonio Spinelli, il cui contributo nella realizzazione del saggio sul campo di concentra mento di Tonezza, e la cui grande disponibilità nel controllo e confronto dei dati sugli internati, ha permesso, senza dubbio alcuno, di accrescere la qualità dell’opera.
Infine, vorrei cogliere ancora una volta l’occasione di ringraziare Giuseppe Pupillo, Presidente dell’Istrevi, per la massima cortesia e fiducia sempre dimostrata nei confronti del sottoscritto.
È mio profondo desiderio dedicare questo libro a tutte le persone che durante gli anni bui di un ormai lontano passato, in terra vicentina, sventuratamente, subirono la violenza della persecuzione nazifascista.